Caterina Mazzucato

ARTICOLO n. 69 / 2025

FINCHÉ VIVRÀ POESIA NEL CUORE DEGLI AMICI

Io ballo da sola trent’anni dopo

Dal tronco di una quercia che affonda le sue radici da centinaia di anni in questa terra collinare, senese si dipanano circolarmente nell’aria rami ritorti che via via si assottigliano prendendo direzioni opposte occupando l’aria circostante con migliaia di foglie verdi, una delle quali arriva a lambire l’acqua placida della piscina. La campagna tutto intorno riposa. Il silenzio è interrotto solo dal frinire incessante delle cicale e dallo sciabordio del volo rasente sull’acqua delle rondini che approfittano del riposo pomeridiano del mondo circostante per prendersi un po’ di refrigerio.

Il giardino della casa è grande e su tanti livelli, a tratti ordinato a tratti selvaggio, ricchissimo di diverse vegetazioni; ci sono gli orti, i pollai riconvertiti in aiuole di fiori spontanei, le siepi di cornioli e rosmarino. Sul grande gelso affianco alla meravigliosa costruzione rurale che ospita dagli anni Sessanta la famiglia Spender e noi ora in questo pomeriggio estivo infuocato, spunta una casa sull’albero, approdo sicuro per generazioni di bambini. Da ogni dove le stilizzate figure umane in terracotta fanno capolino tra la vegetazione, apparendo più endemiche qui delle pietre che formano il terreno. Custodi aggraziate dei segreti familiari, testimoni della vita che si è compiuta. Attorno gli uliveti degradano a perdita d’occhio separando la pace del luogo dal resto del mondo che qui intorno però sembra essere altrettanto placido e rassicurante. 

Matthew Spender, autore delle sculture disseminate nella casa — Leitmotiv visivo e contrappunto del paesaggio e della scenografia del film — ispirò Bertolucci per uno dei personaggi chiave di Io ballo da sola. Non lo vediamo mai, ma sappiamo che si trova una delle stanze del piano superiore, forse una di quelle ad arco, da cui lo sguardo può spaziare sulle campagne fino a sembrare infinito. La sua presenza, pur invisibile, è fortissima e diffusa.

Conosciamo invece la moglie Maro, anch’essa artista, ancora saldamente alle redini del tanto fare che un luogo del genere richiama, e le loro figlie: Saskia, che da giovanissima fu assistente di produzione e regia sul film, e Cosima, che proprio da quell’esperienza, e dalla vicinanza con Bertolucci, ha poi fatto il suo mestiere.

Saranno proprio Cosima e Saskia ad accoglierci in questa esperienza con naturalezza, accompagnandoci dentro l’intimità del ricordo. C’è in loro una delicatezza che sembra provenire da una lunga consuetudine nel vivere tra arte e cinema, quasi come se fossero cresciute davvero dentro un film. Figlie e nipoti di artisti, abituate fin da bambine a una casa aperta, popolata da amici creativi e da una quotidianità fatta di bellezza condivisa, si sono trovate spesso accanto a Bernardo Bertolucci, che in Io ballo da sola finisce per mettere in scena anche qualcosa della loro vita familiare e della comunità affettiva che li circondava.

In questa giornata immersiva per il trentennale dell’uscita di Io ballo da sola in cui si sono ritrovati i protagonisti di allora — del film, ma anche della vita reale a cui Bertolucci si ispirava — riemerge il ricordo di quel gruppo di amici e della loro splendida casa, disseminata ovunque di sculture in pietra e terracotta e segnata da un gusto raffinato, mai ostentato. Una casa che racconta non solo lo stile, ma anche le scelte profonde di una generazione di inglesi colti artisti e appassionati d’Italia, che nel Sessantotto decisero di abbandonare le loro carriere nella City per approdare tra le colline senesi e dar vita a un cantiere culturale e umano fatto di costruzione lenta e portata avanti fino ad oggi: dei mobili, degli oggetti, dello spazio abitato, ma soprattutto delle relazioni. Un progetto di vita che includeva anche un’idea diversa di educazione per le figlie — lontana dalle competizioni, dai ruoli borghesi predefiniti — e che probabilmente voleva unire la spinta della rivoluzione sessantottina al principio fondante di molti artisti, ovvero che l’esperienza della bellezza sia necessaria, e vada cercata sempre, come orizzonte quotidiano lungo tutto il corso della vita. Ovviamente, potendoselo permettere.

Alla sera poi, in Piazza del Campo a Siena si è tenuta la proiezione del film alla presenza di molti dei protagonisti: un’occasione speciale, voluta da parenti e amici, guidati da Valentina Ricciardelli nipote del regista e presidentessa della Fondazione Bernardo Bertolucci, per rivivere insieme un pezzo di storia personale e collettiva. Un’occasione preziosa, per me che ero lì come osservatrice esterna, di vivere quel momento dall’interno.

A quell’invito hanno risposto in molti: protagonisti, collaboratori e semplici partecipanti dell’epoca, chiamati a raccolta non solo per celebrare il film, ma per ritrovarsi nel ricordo di ciò che fu quell’avventura condivisa, sospesa tra arte, estate e memoria. Dagli iconici Jeremy Irons e Sinéad Cusack, nel film rispettivamente un celebre scrittore inglese malato terminale accolto nella grande casa per passare i suoi ultimi giorni attorniato dalla bellezza; e la padrona di casa accogliente e ospitale che riesce a tenere insieme tutta la variegata comunità che si crea intorno. E poi i due “pretendenti” di Lucy-Liv Tyler interpretati da Ignazio Oliva e Roberto Zibetti visibilmente emozionati nel rivedersi giovani attori di belle speranze, nel rivivere anche la loro personale iniziazione, quella al cinema e all’arte.

E soprattutto Jeremy Thomas, il produttore e sodale di Bertolucci, colui che lo ha accompagnato nelle più grandi imprese internazionali, da L’ultimo Imperatore a Il piccolo Buddha, e che ha saputo capire quando il suo amico e partner cinematografico aveva bisogno di “tornare a casa” e affrontare storie e progetti più intimi e personali come Io ballo da sola.

Insieme a loro anch’io ho iniziato il mio viaggio personale attuale e a ritroso all’interno del film.

Nel 1996, Stealing Beauty la cui traduzione sarebbe “rubando bellezza” ma che in Italia esce per volere dello stesso Bertolucci con l’iconico titolo di Io ballo da sola, approda nelle sale come un’opera sospesa tra diario poetico e racconto di formazione. Un film che si muove sul confine tra corpo e paesaggio, tra luce e inquietudine, tra soggettività e mistero. Trent’anni dopo, questo film torna come oggetto critico, testimonianza estetica degli anni ’90 e banco di prova per le mutazioni dello sguardo contemporaneo.

Nel 1996 ero una ragazza. Una giovane donna all’inizio di tutto, affacciata sul mondo con lo stesso misto di paura, desiderio e incoscienza che si legge negli occhi di Liv Tyler in Io ballo da sola. Trent’anni dopo, guardo quel film da un altro crinale della vita: i quarant’anni sono ormai passati, un’età di transizione in cui i cerchi iniziano a chiudersi e si insinua silenziosa, l’idea della fine.

Il film è immerso in un immaginario preciso: la Toscana rurale, una comunità bohemien di artisti, scrittori, intellettuali e ospiti in cerca di guarigione o ispirazione. Il tempo è quello dell’estate, dello stare, dell’osservare. L’atmosfera è fatta di luci naturali, silenzi, corpi esposti alla luce, dialoghi minimi e folgoranti. Bertolucci firma una regia che non rincorre l’azione ma la contemplazione: Io ballo da sola è cinema della pelle, del paesaggio interiore e dei gesti sospesi.

La protagonista Lucy (interpretata da una giovane e bellissima Liv Tyler e scelta da Bertolucci anche per via della similitudine tra la sua storia familiare e quella della protagonista) è una diciannovenne americana che arriva in Toscana dopo il suicidio della madre poetessa, per trascorrere l’estate nella villa di amici di famiglia. Lucy è alla ricerca di due cose: il mistero su chi sia suo vero padre – suggerito nei diari lasciati dalla madre – e il ragazzo con cui aveva scambiato un bacio quattro anni prima.

I temi di questo film, che alla fine degli anni ’90 divenne subito un’opera di culto per tutte noi, sono numerosi, chiari e ben articolati nello svolgersi della trama, che si dipana dietro le tante apparizioni dei personaggi, anch’essi portatori di storie incentrate sulle relazioni umane. Storie fatte di balli, gesti, coreografie corporee intrecciate al paesaggio abbacinante della campagna senese, i cui colori appaiono ancora più accesi sulla copia in proiezione, dichiarando la necessità del restauro.

Sul fondo, il rumore vivo di una casa-palcoscenico, rifugio sentimentale, che accoglie chiunque sia pronto a confrontarsi con l’amore e i suoi tormenti. E dietro alle tante sculture di Matthew Spender, momentaneamente traslocate dalla vera dimora che ispirò il film, c’è l’eco di quella casa originaria, che ci ha ospitati in questa reunion del trentennale, specchio fedele della casa-location.

Il tema dell’essere orfana come condizione per crescere e come premessa per il desiderio: Lucy arriva in Toscana dopo la morte della madre, e con un padre sconosciuto. È l’archetipo dell’orfana, in senso simbolico, come condizione necessaria all’autonomia. Come scrive Hannah Arendt “Diventiamo veramente umani quando nasciamo di nuovo, cioè quando ci assumiamo la responsabilità della nostra esistenza.” Nel film, l’assenza materna e la paternità ignota non producono solo dolore, ma attivano il movimento, l’interrogazione, la ricerca. Lucy non eredita, cerca, non riceve, desidera e Il suo viaggio è verticale ovvero non si muove nello spazio (che rimane idilliaco ma sempre uguale a se stesso), ma dentro di sé.

Il tema del viaggio iniziatico e della scoperta tramite il corpo e il desiderio. Conosciamo Lucy in un momento di transizione, in cui il desiderio e la scoperta del proprio corpo diventano strumenti per conoscersi, per capire chi è e cosa vuole diventare. La sua iniziazione sessuale non è un semplice evento, ma una tappa in cui il corpo prende la parola, il desiderio diventa forza che trasforma, e l’erotismo riflette un’identità in costruzione. La perdita dell’innocenza come passaggio filosofico. Non c’è trauma, ma metamorfosi. Lucy perde l’innocenza nel senso più profondo: come consapevolezza della propria soggettività. Come nei più classici romanzi di formazione, Lucy attraversa la soglia. La villa toscana non è solo luogo fisico, ma spazio iniziatico.

Un altro fulcro centrale del film, e della gioia di rivederlo oggi è la colonna sonora, con sonorità e scelte musicali tipicamente anni ’90. Io ballo da sola è un film che si ascolta tanto quanto si guarda. Da Billie Holiday a Portishead, dai Cocteau Twins a Hooverphonic, da Liz Phair a Stevie Wonder.

E la musica, questa musica, apre prepotente anche alla nostalgia. Quella per il tempo in cui i CD che avevi nella tua stanza dicevano chi eri meglio di qualunque bio su Instagram. Quella per i pensieri di Lucy, scritti a penna sugli angoli di riviste e vecchi libri, strappati e poi bruciati nel fuoco delle candele che oggi, sarebbero al massimo salvati in bozze su Note o condivisi su WhatsApp.

E infine, nostalgia vera: quella per un’estate italiana senza zanzare tigre.

Il film oggi quindi mi parla di nuovo, ma con parole che allora non avevo. Il vocabolario che riconosco adesso è certamente più ricco, più sfaccettato, carico di sfumature e significati. In questa visione al termine di una giornata di re-incontri tra chi c’era, forse dolci, forse amari, comunque sicuramente intensi, in cui è naturale chiedersi se non potrebbe essere forse l’ultima occasione di incontro, mi accorgo di essere molto più capace di stare accanto anche alle storie dei personaggi secondari: ognuno in una fase diversa della vita, con le proprie fragilità, i propri desideri, le proprie dinamiche relazionali. Storie che allora mi sfioravano appena, e che oggi invece mi parlano con una vicinanza nuova. Perché inevitabilmente, con il tempo, si affievolisce quello sguardo spavaldo e incosciente che accompagna ogni prima volta. Si perde, poco a poco, ogni volta che si attraversa qualcosa di nuovo o si comprende qualcosa di più — perché crescere significa anche lasciar andare una parte di quello stupore iniziale.

Ma cosa è successo in questi trent’anni? Parecchie cose.

Nel frattempo, ci sono state le battaglie femministe, MeToo, il ripensamento del desiderio e del potere. Abbiamo imparato a riconoscere ciò che allora sembrava naturale e ora non lo è più. Eppure, Io ballo da sola resta. Resta eccome perché racconta un momento irripetibile per una ragazza che si fa archetipo femminile del viaggio iniziatico (altra faccia del più maschile viaggio dell’eroe) tramite lo sguardo intenso e infinitamente struggente di uno degli artisti contemporanei più coraggiosi e dolci e indagatori delle relazioni umane che è stato Bernardo Bertolucci. Che in qualche modo ci costringe ora a rivederci come eravamo, e a domandarci cosa siamo diventate.

Trent’anni dopo l’uscita di Io ballo da sola, è naturale guardare quel film con occhi diversi. Il tempo è cambiato, e con esso lo sguardo collettivo sul corpo, sul desiderio, sulla rappresentazione dell’adolescenza femminile. Alcuni aspetti che negli anni ’90 ci sembravano poetici, liberi, addirittura rivoluzionari — come la sensualità di Lucy, la sua iniziazione attraverso il corpo e il desiderio, la nudità come espressione — oggi ci interrogano da altre prospettive: quelle del consenso, del potere, dell’asimmetria tra autore e soggetto. La regia di Bertolucci è stata letta da alcuni come espressione di un potere maschile travestito da lirismo, e la sua figura posta al centro di un dibattito necessario sul rapporto tra arte, etica e rappresentazione. Ma è proprio in questa tensione che sta il valore del film e del nostro rapporto con esso: Io ballo da sola è figlio del suo tempo, e per questo va guardato oggi non con giudizio sommario, ma con strumenti critici capaci di tenere insieme sensibilità diverse. Ciò che comunque sorprende, ancora oggi, è la capacità di un autore adulto, uomo, lontano per età e condizione dall’adolescenza, di raccontare con tale precisione e delicatezza un passaggio che riguardava profondamente noi giovani degli anni ’90, molto più vicini di lui a quelle emozioni, a quella soglia tra innocenza e consapevolezza. È giusto interrogarlo oggi, ma è anche giusto riconoscere quanto un film così ci abbia parlato e continui a farlo. Non tutto può e deve essere riadattato retroattivamente: alcune opere vanno comprese nel loro tempo, e custodite come testimoni di una sensibilità, di un’estetica, di un pensiero che ha segnato una generazione. Rivederle oggi, con domande nuove, è anche questo un atto d’amore.

E quindi cosa può dire oggi questo film alle ragazze che hanno vent’anni nel 2025? Forse che la libertà è un miraggio che si insegue ballando, a volte da sole, a volte insieme. Che crescere è anche attraversare gli sguardi degli altri, ma poi imparare a restituire il proprio. E che i sogni, anche quelli sbagliati, anche quelli imposti, lasciano tracce reali.

Che spesso quello che crediamo fondamentale, come conoscere l’identità del nostro vero padre o identificare correttamente la persona giusta con cui fare l’amore la prima volta, si rivela trascurabile al limite dell’insignificante, ma che ciò che conta veramente è passare attraverso, vivere i passaggi, fare le esperienze umane e compiere il proprio destino.

Con le debite distanze e proporzioni, mi sembra naturale oggi riconoscere in Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) di Luca Guadagnino un’esperienza contemporanea affine a quella di Io ballo da sola. Non solo per l’ambientazione e il tono, ma anche per la capacità di raccontare quel misto di paura e desiderio che accompagna la scoperta dell’altro — altro come corpo, come identità, come differenza sessuale, come universo intellettuale con cui collidere, confrontarsi, creare anche per definire la propria identità. E, in entrambi i casi, riuscendoci.

Che oggi, a trent’anni da Io ballo da sola, all’inizio del nuovo millennio, l’indagine più urgente e significativa sia quella sull’identità queer — sulle possibilità di raccontare, comprendere, vivere e rappresentare un’attrazione e un rapporto omosessuale o non conformista — è indubbio. Ma ogni epoca ha le sue urgenze, e soprattutto i propri modi per mettere in scena e narrare i temi universali, come quello dell’iniziazione. Guadagnino, che sta anche realizzando un documentario sulla vita e le opere di Bernardo Bertolucci, non ha mai nascosto di avere un debito artistico nei confronti del regista scomparso ormai da quasi un decennio. Non mi stupirebbe se, nella realizzazione di questo suo film, fosse tornato col pensiero proprio a Io ballo da sola.

L’invito a questa giornata mi ha dato l’opportunità di fare un’esperienza immersiva nella biografia profonda del film, ma anche nella dimensione emotiva e affettiva che ancora oggi lega chi vi prese parte. Ho percepito chiaramente quanto forte fosse il legame tra i partecipanti di allora e quanto ancora oggi Io ballo da sola venga raccontato non solo come un’opera cinematografica, ma come un frammento di vita vissuta. Mi ha colpito inoltre l’affetto con cui tutti i presenti, ognuno a suo modo, abbiano ricordato Bernardo Bertolucci come un artista e un uomo capace di dare molto anche nella sfera privata.


È stato un assaggio, una restituzione malinconica e potentissima di una stagione: quella della fine del millennio, della maturità di un artista e del suo gruppo novecentesco. A tutti loro, e in fondo anche a tutti noi, manca quel sentire e quel vivere predigitale, fatto di presenze fisiche, di scambi lenti, di uno stare insieme più umano e meno filtrato.

Ma forse oggi abbiamo guadagnato altro: nuove consapevolezze, linguaggi più inclusivi, sguardi capaci di cogliere sfumature diverse. E proprio nel dialogo tra ciò che è stato e ciò che siamo oggi, nella possibilità di tornare a guardare con occhi nuovi qualcosa che ci ha formati, sta la ricchezza del presente.

Mi congedo da questa parentesi senese fatta di vivi e di morti aprendo la prima pagina delle poesie di Stephen Spender padre di Mattew e nonno di Saskia e Cosima; un libro Guanda del 1969 gelosamente custodito da mia madre nella sua libreria dei poeti amati. La prima cosa che leggo è la dedica iniziale e non mi sembra una coincidenza ci sia scritto: “a LEONE TRAVERSO vivo finché vivrà poesia nel cuore degli amici”.

 Una lunga tradizione di sodalizi e di fiducia nell’amicizia.

ARTICOLO n. 66 / 2025

SUL PREMIO STREGA 2025

Andrea Bajani, "L’anniversario"

Pars destruens 

Ho appena terminato la lettura del romanzo vincitore del Premio Strega 2025, ma devo ammettere che è stata un’impresa più faticosa di quanto avessi immaginato. Il testo procede con un’incisività piatta, senza guizzi stilistici, privo di un vero slancio linguistico: asciutto, secco, e francamente monotono. Più che un romanzo, sembra un dispositivo narrativo costruito per rientrare in certi schemi e fin troppo snello, per fare un paragone con il mio ambito — quasi un cortometraggio che si affida a una frase d’effetto finale per dare senso a tutto il sistema.

Ciò che più mi ha lasciato perplessa è il punto di vista adottato: il racconto, cupo e impenetrabile, è filtrato da una voce narrante non tanto sofferente quanto rigidamente puntigliosa e sorprendentemente anaffettiva. Non è soltanto il peso di una famiglia disfunzionale — dominata da un padre freddo, violento o comunque opprimente — a rendere faticosa la lettura. È, piuttosto, una sorta di apatia di fondo, un’inerzia esistenziale che avvolge ogni pagina, rendendo l’esperienza della narrazione più mortifera che riflessiva. L’impressione dominante non è quella di un’esplorazione catartica del dolore, ma di un suo resoconto implacabile, distante, che non lascia spazio né al riscatto né alla complessità emotiva.

I personaggi sembrano non emergere mai davvero. Restano ombre, figurine inchiodate a ruoli narrativi più che esseri viventi con contraddizioni e sporgenze. Né la madre, né il figlio-narratore, né tantomeno la figura paterna trovano una forma compiuta che li faccia “apparire” davvero al lettore, come presenza viva. È come se la scrittura si limitasse a un reportage dei fatti e dei sentimenti, senza alcuna emanazione evocativa.

L’ambizione evidente è quella di raccontare il patriarcato non solo come struttura sociale dominante, ma come dinamica interiorizzata, riprodotta a ogni livello — pubblico e privato, sociale e familiare anche da chi ne è vittima, diventandone complice. Ognuno, a suo modo, concorre a perpetuarlo: madri, figli, vittime e carnefici, consapevolmente o meno. In questa prospettiva, il patriarcato non è solo un’eredità, ma un gioco oscuro a cui tutti partecipano secondo il proprio ruolo, anche contro la propria volontà. Eppure, proprio in questa messa in scena corale, qualcosa non riesce a compiersi.

Il padre, figura centrale nella dinamica oppressiva, finisce per essere quasi assolto, o almeno ridotto a emanazione di un male più ampio, sistemico, come se il racconto — pur volendo denunciarlo — ne giustificasse i comportamenti attraverso un riferimento implicito a una sofferenza psichica mai realmente indagata. Una diagnosi mancata che sembra voler spiegare tutto, come se dire “era malato” bastasse a contenere e chiarire l’intero orrore.

Ma la letteratura non dovrebbe forse proprio mettere in crisi questi automatismi di pensiero? Non basta, credo, accennare a una dinamica tossica, o dichiararla: è necessario farla esplodere dall’interno, mostrarne le crepe, le contraddizioni, anche nei personaggi secondari. Qui, invece, ogni figura sembra disegnata per “funzionare” nel meccanismo del racconto, senza margine di imprevisto. Nessuno sfugge davvero al proprio destino narrativo, neanche il lettore.

Al di là dei temi, che naturalmente sono rilevanti, urgenti, e necessari da esplorare, ciò che ho trovato più scoraggiante è la mancanza di una minima parvenza di gioia nella lingua di afflato linguistico. Ho faticato a portare a termine il libro sicuramente per via della sua struttura predefinita, prevedibile, per cui non è possibile aspettarsi nulla se non quello che (non) accade, ho dovuto sforzarmi di leggere parola per parola, senza concedermi quella lettura “per blocchi” che si riserva ai testi più aridi, proprio perché temevo che ogni minimo spostamento lessicale potesse finalmente generare un cortocircuito rivelatore. Ma non è mai successo.

Non una frase, non una scelta lessicale, non una giustapposizione di immagini è riuscita a creare un altrove, un’apertura simbolica, un’eco che restasse nella mente o nel corpo. È un romanzo in cui si può riconoscere l’efficienza del progetto narrativo, la coerenza tematica, perfino il coraggio di affrontare certi nodi familiari e politici. Ma non c’è incanto. Non c’è enigma. Non c’è quella vibrazione che fa della letteratura qualcosa di più di una somma di argomenti. 

Mi permetto questa riflessione prima di tutto da lettrice delusa, e allora mi chiedo, con autentica perplessità: se questo è stato il miglior romanzo italiano dell’anno, davvero tutto il resto della produzione narrativa è inferiore o comunque meno rilevante? Oppure siamo in un momento in cui anche i premi più ambiti finiscono per privilegiare opere che rispondono a criteri di correttezza tematica più che di audacia artistica? È possibile che nella ricerca di testi “giusti”, si perda di vista il gesto letterario nella sua essenza più profonda?

Pars costruens 

A volte mi capita, una sorpresa, un libro che inizio con un pregiudizio negativo e che poi mi seduce totalmente. Sono certa mi deluderà, non lo leggo per altro motivo che per avere conferma del mio pregiudizio, per una sorta di masochismo letterario… eppur si muove, diceva qualcuno. Eppure succede qualcosa, qualcosa che nella lettura mi riempie sempre di gioia e sorpresa. Cambio idea e mi succede subito, appena inizio a leggere.

D’altronde per me l’inizio e la fine di un libro, di un film, di una qualsiasi storia sono la mia cosa preferita, se mi folgorano difficilmente l’opera mi deluderà.

«L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta per salutarmi», così, sono dentro, maledizione e al tempo stesso evviva,  il pregiudizio mi ha totalmente abbandonato, leggo e basta. Sono dove non mi sarei mai aspettata di essere, siamo io e il libro, sarà così per tutto il pomeriggio che durerà la mia lettura.

Bajani è il narratore di una storia che non mi lascia tregua, che in maniera stranamente sincronica con la sua vicenda mi fa cancellare l’appuntamento con mia madre del pomeriggio per poter finire la lettura, che mi apre spiragli inaspettati, fuori 36 gradi di una Bologna immobile di umidità e afa e dentro il gelo di una storia in cui la violenza è tanto forte quanto non “gridata”.

C’è un sottotitolo che è importante, un’avvertenza forse, un’istruzione per l’uso, un romanzo. Sotto il titolo campeggia seppur in piccolo, un romanzo, non autofiction dunque, non un memori, un romanzo. Letteratura. 

Eppure, eppure il narratore parla in prima persona in maniera fortemente e apparentemente biografica, è uno scrittore, parla di scrittura, semina dettagli che raccontano un Io, ma l’espediente narrativo è creare distanza, senza cedere all’emotività del memoir.

È una storia vera?

È la storia di Andrea Bajani?

Non importa, lo sdoppiamento arriva, io entro in contatto con personaggi e non con persone, io sono dentro a quel sottotitolo, sono in un romanzo.

Un romanzo borghese, dove la violenza è presente ma non è urlata, è terribile ma non è dentro la periferia urbana in cui viene sempre relegata, è una violenza patriarcale di un Padre ma di cui la Madre è vittima eppure complice insieme. Eppur si muove…lei non è un personaggio passivo, è un patto quella fra i due personaggi «lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa. Il che forse più che un fraintendimento fu in qualche maniera un patto mai espresso, il loro segreto».

Il Figlio è di troppo, non è parte del patto, non è un eroe, non fa altro che cercare di capire ma senza entrare nell’equazione, solo una è la scelta che fa, la fuga. Pagina tre, «dieci anni fa, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita».

Subito nel principio la fine, lì io ho deciso che quel pomeriggio io dovevo finire di leggerlo questo libro arancione, abbacinante, in cui il viaggio a ritroso non avrebbe avuto un finale a sorpresa, nel quale non ci sarebbe stata immedesimazione perché il distacco è la sua potenza.

Ti prende a pugni Bajani, con uno stile lontanissimo da quello che mi appartiene e che è la mia tazza di tè, nel frattempo, scrivo a mia madre «ho un mal di testa fortissimo, meglio che non esca con questo caldo, ci vediamo domani», penombra, pale del ventilatore che muovono un’aria rarefatta e dieci bicchieri d’acqua a dividermi dalla fine di un romanzo che ero certa avrei detestato.

Tre personaggi a loro modo terribili, a loro modo vittime e carnefici, certo il Padre è il simbolo della violenza, la esercita e la pratica ma ognuno dei tre personaggi sta dentro la fotografia almeno finché il Figlio non decide di uscirne, con la ferita esposta e il vuoto in un angolo della mente e della stanza.

Mi ha lasciato stupefatta, messa anch’io all’angolo e allucinata l’uso della lingua, il fare letteratura con la violenza e non esprimerla mai se non con immagini inaspettate, una donna che per sua scelta si lava i denti con l’acqua dello scarico del water, per non disturbare, per non esistere, è molto più violento di un uomo che picchia una donna. Soprattutto è letteratura e non è cronaca, è sfumatura e non è grido, è qualcosa che cerco da una storia, esattezza e non verità. Eppur si muove. 

Il tema di questo oggetto narrativo che più leggo, più riconosco come definito nel sottotitolo romanzo, è la sottrazione, il non voler esistere o il voler fuggire, la Madre resta, il Figlio fugge ad una violenza che è anche fisica ma che è soprattutto quello che non c’è. 

Ripenso mentre leggo proprio agli Afterhours, a quella canzone, “a quella foto di pura gioia e di un bambino con la sua pistola che spara dritto davanti a sé, a quello che non c’è”…in questa storia apparentemente nessuno spara, non succede quasi nulla, eppure succede tutto, in quel modo borghese in cui le cose succedono, non si spara, non ci si vendica ma si scappa. Si prende distanza, ci si sottrae, ci si nasconde.

Nessuno salva nessuno.

Ultimo bicchiere d’acqua, ultime pagine, ancora fa troppo caldo per aprire i vetri e gli scuri, penso a quei personaggi secondari che restano sullo sfondo, la Sorella, la Moglie, persino il bambino, soprattutto la strana terrificante psichiatra, un coro che non prende forma eppur si muove.

Il letterario e il metaletterario che si sposano, libri letti, lettere scritte, biglietti, c’è qualcosa che non torna, ma mi ricorda Vitaliano Trevisan che diceva qualcosa che non ricordo perfettamente ma che suona come «i conti in letteratura non devono mai tornare».

Ho finito, è arrivata l’ora di aprire le finestre, di far entrare aria e luce.

Di bere l’ultimo bicchiere d’acqua e respirare. Ho il fiato corto ma gratitudine verso quella parte di me che sa mettere da parte i pregiudizi, almeno con le storie.

Dialogo

La cosa sorprendente — che in parte già mi confuta — è che proprio quegli aspetti che io ho trovato deprimenti e privi di afflato, per te sono segnali di rigore narrativo e coerenza. Ciò che a me è parso un incedere funesto, lineare, mai tentato dalle deviazioni laterali, tu lo leggi come accompagnamento semantico, come adesione piena a una forma che si fa contenuto. L’asciuttezza tagliente che a mio avviso appiattisce i personaggi in un catalogo di tipi narrativi, per te assume la forza degli archetipi. Dove io ho visto una povertà descrittiva, tu hai trovato essenzialità.

E questo tuo entusiasmo – sincero, partecipe, intelligente – mi fa bene. Mi restituisce, se non proprio entusiasmo, almeno fiducia in chi seleziona, premia, fiducia insomma nel buon operato delle istituzioni letterarie nazionali e nei suoi sistemi.

Ma allora ti chiedo, con curiosità autentica: dopo quel bicchiere d’acqua, dopo l’apertura simbolica delle tue grandi finestre che sovrastano uno dei più tipici e caratteristici piccoli portici bolognesi, dopo il respiro di sollievo per aver terminato il libro (respiro che condivido!)  cosa ti rimane davvero? Cosa ti porti dietro di questa storia? A quale personaggio farai appello nelle tue passeggiate solitarie? Quale voce ti accompagnerà nei giorni futuri, quale frase risuonerà dentro di te come eco di qualcosa che ha lasciato traccia?

Personalmente, nelle mie guidate solitarie su e giù tra città e periferia, non mi è mai tornato spontaneamente alla mente. Forse perché mi è difficile aderire a un dispositivo narrativo così borghese, per struttura e intenzione. E quelle rare volte in cui ho volontariamente riportato alla memoria L’anniversario, ho provato una specie di fastidio: non per ciò che racconta, ma per il modo in cui lo racconta.

C’è in questo romanzo mi pare, una scoperta tardiva dei fatti da parte del narratore, una sorta di consapevolezza dilatata che pretende di guidare il lettore in un percorso ormai noto, forse addirittura ovvio. Come se l’emersione del tema bastasse a legittimare il gesto letterario. Ma noi lettori, oggi, siamo forse più avanti. Il patriarcato, la sua interiorizzazione, le sue forme sottili e brutali: tutto questo è già al centro del dibattito contemporaneo, raccontato e analizzato in modi spesso più sfaccettati, complessi, stratificati.

In questo senso, L’anniversario mi è sembrato arrivare in ritardo, o meglio: fermarsi un passo prima. Perché esporre non è ancora interrogare, e mettere in scena non coincide con mettere in crisi. E quando la letteratura non si spinge fino a quel cortocircuito, per me resta il sospetto che qualcosa sia mancato. Non nei temi, ma nello sguardo.

Dopo alcune settimane dalla lettura, ora con davanti un caffè e una notte insonne dopo festival, con davanti agli occhi un fresco cielo delle colline piemontesi e un gallo che canta, leggo le tue impressioni e metto in dubbio le mie…

Ripenso a cosa mi è rimasto di quell’entusiasmante pomeriggio di lettura, un’esperienza quasi fisica che ho vissuto leggendo e che ora mi chiedo, perché tu saggiamente e provocatoriamente mi chiedi, cosa mi è rimasto?

Mi è tornato alla mente qualcosa?

Ci ho ripensato nelle pieghe delle mie giornate?

Sì e no… hai ragione quando dici che forse si ferma prima di attaccarsi addosso ma d’altra parte il protagonista, insopportabile eppure che sento a tratti simile nel voler fuggire lontano e non affrontare le cose, che in questo sento amico, vigliacco ma in fondo prepotente nel voler scegliere sé stesso ad un certo punto… lui mi rimane sulla pelle, lo odio e al tempo stesso gli voglio bene.

Poi ci sono gli altri personaggi, che hai ragione, mancano di spessore, ma non sono forse funzioni narrative e non personaggi in senso stretto? Sono forse più vicini a Jon Fosse che a Balzac?

Allora ti chiedo, che sia la scrittura maschile che ha perso di forza narrativa?

Non vuole essere femminismo fine a sé stesso o pseudo misantropia ma una riflessione più profonda…

Forse Bajani voleva fare Annie Ernaux senza averne la forza e la potenza letteraria?

Il gallo canta, le campane suonano e forse pioverà per una mezz’ora e io m’interrogo su un’altra cosa e te la giro, ci serve sempre l’empatia quando leggiamo?

Questo gioco dell’io letterario funzionerà all’infinito o sta stancando?

E tornando al nostro amico\nemico Bajani che ci sta tenendo vicine nella lontananza, se un romanzo ha uno sguardo che ti è respingente non ha comunque fatto il suo dovere non lasciandoti indifferente?

Non lo so, una cosa la so, quella psichiatra a tratti insopportabile è un personaggio letterario a tratti sublime secondo me e al tempo stesso, ripensandoci oggi, con la distanza di un pomeriggio diverso dall’altro, forse è un’occasione mancata.

Ti aspetto…

P.S. Non ti ho risposto forse, vero?

Sull’idea che ogni testo, ogni storia debba innescare una risposta emotiva e immaginativa nel lettore, non ho dubbi. La narrativa deve essere sempre empatica: quando non lo è, manca l’obiettivo. È in questa mancanza di coinvolgimento che ho percepito, nel romanzo, il suo limite maggiore.

Ma vorrei partire dalla fine, da un dettaglio che avevo colto senza davvero riconoscerne la portata, fino a quando non ho avuto la possibilità di rileggerlo attraverso la tua lente. E sì, mi hai risposto eccome. È la terapeuta, ora lo vedo chiaramente, l’unico personaggio davvero “da romanzo”, nel senso più pieno e stratificato del termine: sfaccettata, ambigua, millenaria, sfuggente. Una figura che incarna un sapere sul patriarcato che non denuncia né amplifica, ma “normalizza, nel senso che riportandolo all’interno delle relazioni e dell’attualità concreta di chi ha davanti e insieme lo connette alla Storia.

Non è mai simpatica, non è consolatoria. È evasiva come i medici di un tempo, quelli che ti comunicavano una verità senza piegarla alla tua emotività. Detiene un sapere che nessun altro personaggio possiede e proprio per questo si staglia con forza nel quadro generale. E tuttavia, anche lei, forse proprio lei più di altri, viene poi costretta a rientrare nei canoni del tratteggio sommesso, per non tradire l’impostazione afasica della voce narrante. Una voce che resta chiusa, imperturbabile, incapace di aprirsi a un altro gesto linguistico, neppure nel momento di massima elaborazione del trauma. Si intuisce (e si spera) che qualcosa si muoverà dopo, nel rapporto col figlio, su basi diverse. Ma poco importa, perché il romanzo ci obbliga a stare lì, dentro la descrizionedella negatività, senza mai davvero trasfigurarla.

E forse è proprio questo il punto; questo era il suo intento! E sono io a non trovarlo appagante, né arricchente, né tanto meno catartico. Perché non è nemmeno nichilista o introspettivo. 

Non credo che Bajani manchi di ambizione o di consapevolezza — sarebbe ingeneroso pensarlo, soprattutto considerando il suo ruolo nel mondo letterario italiano. Ma sì, a mio avviso, è innegabile che un certo sguardo maschile sul mondo e sui sentimenti, anche quando si propone di denunciare strutture patriarcali, oggi risulti meno efficace, meno fertile, meno capace di restituire la complessità del tema. Soprattutto quando resta ancorato a un punto di vista egoico che, paradossalmente, parte dal medesimo presupposto dello sguardo patriarcale che si vorrebbe mettere in crisi — senza creare una reale contrapposizione dialettica, senza produrre spostamento.

Ecco, forse è proprio questo che mi è mancato: un cortocircuito, un attrito, qualcosa che incrinasse l’ordine del racconto. Invece tutto resta lì, perfettamente coerente con se stesso. Troppo.

Afasia, hai ragione, è sottesa a tutto il racconto e può essere snervante, così come quel tempo dell’attesa infinita che è il racconto della vita del narratore fino alla sua scelta…

Credo che la catarsi che ho vissuto in quella prima lettura sia legata al mio lasciarmi trasportare in una narrazione senza tempo e senza spazio inserendo al suo interno il mio tempo e il mio spazio, creando un legame con quella lingua che in fondo a me feriva e colpiva, laddove a te non dava attrito. Dipende allora più da che dallo scrittore l’esperienza?

Leggo le tue perplessità e le tue critiche e penso che hai ragione, ma che io ho applicato quella sospensione del giudizio che non spesso, ma talvolta riesco ad applicare… un’indulgenza totalmente spontanea e che mi fa perdonare difetti ed egocentrismi autoriali.

Perché?

Contingenze, momento giusto e legami invisibili con dettagli delle storie…immagini abbacinanti che mi colpiscono e mi rimangono, penso a quella scena dell’acqua dello scarico e anche al momento in cui il protagonista scrive, dalla sua cucina, ormai lontano, libero…

Sullo sguardo maschile e la mancanza di complessità dovuta forse ad uno sguardo non in linea con il racconto, sono dell’idea che hai ragione e che tolga potenza di assoluto e di potenziale “classico” all’opera, che vive, per me dentro il momento in cui è stata letta e forse sarà dimenticabile… te lo dirò tra qualche tempo, ma sento che potrebbe essere così e questo sì può essere peccato capitale e non veniale per chi scrive. Ma tant’è i premi hanno spesso il valore di una stagione… a proposito chi ha vinto l’anno scorso? Io non me ricordo neanche più…

Provocazioni a parte, grazie, dello scambio e del senso di forza e libertà che mi ha dato rileggere un’opera alla luce della tua lettura.

Quando lo rifacciamo?

ARTICOLO n. 88 / 2024

BYUNG-CHUL HAN, UNO DI NOI

O di come la sua indagine filosofica sia conforme a ciò che analizza

Parto dichiarandomi; sono un’appassionata lettrice di Byung-Chul Han.

Lavoro nella cultura, mi occupo di cinema e scrivo. Ho studiato arte e sono sempre stata attratta dalla filosofia, anche se il mio interesse non è mai sfociato in qualcosa di professionalizzante, se così si può dire. Ho sostenuto qualche esame all’università, ma il mio approccio è sempre stato per lo più da autodidatta seguendo di volta in volta percorsi di approfondimento filosofico molto personali.

Per come sono fatta ho sempre avuto bisogno di supporto teorico per comprendere il mondo e ciò che mi accade. Le teorie femministe per esempio, così come quelle filosofiche in generale, mi hanno sempre aiutata a interpretare gli eventi, e così, senza alcuna pretesa accademica, mi sono avvicinata ai testi di Byung-Chul Han, come tanti altri, credo, attratta dal discreto successo che hanno riscosso in Italia grazie anche alle splendide edizioni di Nottetempo ed Einaudi, curate e insieme estremamente pop.

Ecco: questi volumetti snelli, agili e dall’altissima leggibilità, sono capaci di tessere con garbo e decisione le fila di una tematica, già ben espressa nei titoli, e di condurre il lettore al punto senza distrazioni né deviazioni, dando l’opportunità alla donna della strada, come me, di concentrarsi in breve tempo su riflessioni teoriche che non siano mediate dall’arte o dall’informazione.

Piccoli compendi sul vivere contemporaneo, che corro a comprare ogni volta che ne esce uno nuovo, percependoli come quasi indispensabili per uscire nel mondo e comprenderne i meccanismi sociali. E a ogni nuovo volume mi stupisco di quanto Han sia capace di colpire il bersaglio affrontando temi che, consciamente o meno, abbiamo tutti preso in considerazione senza però riuscire a metterli a fuoco e su cui, nell’incessante incedere della vita quotidianità, abbiamo finito per inciampare.

Molti, anche in Italia, si sono interrogati sul successo della filosofia di Han e sull’originalità di questo pensatore così sui generis, capace di distinguersi dai colleghi per la chiarezza espositiva e l’approccio diretto ai suoi temi. Una delle possibili ragioni di questa limpidezza stilistica risiede, come sottolineato già da molti, forse nel punto d’incontro tra due culture di cui è portatore: da un lato, l’essenzialità della tradizione orientale, mondo in cui è cresciuto e che privilegia espressioni asciutte e prive di eccessi, dall’altro, la precisione della tradizione occidentale tedesca, dove Han ha studiato, insegna e risiede fin dall’età di vent’anni. Questo connubio tra culture così affascinanti dà origine a una straordinaria chiarezza e a una profondità di analisi che si esprimono in testi privi di deviazioni e sbavature. 

I suoi scritti sembrano congegnati per essere sottolineati parola per parola, mettendo in difficoltà una come me, che ama evidenziare e rimarcare con segni a matita solo i concetti chiave dei libri, perché ogni sua frase sembra indispensabile; nei suoi testi, infatti, nessuna lunga e verbosa spiegazione o pesanti genealogie teoriche tanto comuni nei testi di ricerca, portano fuori fuoco o fanno abbassare il livello d’attenzione. E le citazioni di altri sistemi teoretici o pensieri di colleghi sono pochissime e utili solo a essere contraddette o derubricate come inesatte. Così, Han procede senza inciampi con l’incedere pacato e coraggioso di chi, come il saggio, possiede la verità e la sa condividere con la limpidezza dell’illuminato.

Schivo, lontano dai riflettori e dal ritmo incessante della divulgazione accademica, la sua figura sembra perfettamente in linea con la forza teoretica che rappresenta – un mix esplosivo per chi, come me, è in costante ricerca di comprensione dei meccanismi della postmodernità.

Byung-Chul Han sembra dunque possa fornire attraverso ciò che scrive, come lo scrive e la sua stessa essenza, un orizzonte filosofico per l’uomo contemporaneo.

In questo senso, quello che più risulta apprezzabile e godibile è la semplicità d’esposizione che riscontra chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il linguaggio filosofico.

Davvero, niente mi appaga più di poter riflettere sulle questioni del nuovo millennio anche mentre sono in sala d’attesa dal dentista o sto aspettando che mio figlio esca da Psicomotricità. 

E questo Han, come un manuale pronto all’uso, mi permette di farlo.

Poco importa se, addentrandomi sempre più nel suo linguaggio, a volte mi sono sentita intimorita dalla sua assertività, dalla sua sicurezza teutonica appunto, quasi incrollabile, e da un sistema di pensiero che, strutturato com’è, non ammette pareri alternativi. Poco importa, perché ciò che dice appare sempre così estremamente sensato e corretto, così ben formulato ed estremamente fondato su studi fatti in modo così estremamente accurato. 

Quasi più intimorita che di fronte a un vecchio filosofo di formazione novecentesca e dall’impostazione patriarcale che inventa mondi complessissimi e linguisticamente respingenti al limite dell’incomprensibile. In questi mondi autoreferenziali e spesso dogmatici, anche quando non sembra, è però necessario “metterci del proprio” per trovare il senso, fare uno sforzo di sintesi che richiede di appellarsi al proprio sapere filosofico e al proprio senso immaginativo.

Al contrario, in Han non si avverte la necessità di alcuna conoscenza filosofica di base, né è richiesto uno sforzo di decodifica. La sua modalità di scrittura solleva il lettore dall’impegno di un’interpretazione personale; ogni concetto è talmente nitido e sensato da non lasciare margini, né di incomprensione, né di disaccordo.

Così, durante una delle cene del venerdì sera, tra noi soggetti di prestazione (come direbbe lui) intenti a confrontarci e a riconoscere il nostro non-essere-più-in-grado-di-non-poter-fare questa sua razionalità assoluta, questa sorta di “infallibilità” ci ha portato a riflettere sulla natura del pensiero e sulla figura di Han, forse molto più simile a quella di un sociologo che di un filosofo.

Lungi dal creare teorie alternative o mondi possibili, Han offre infatti semplicemente una lucidissima, razionale e ben supportata presa di coscienza di ciò che stiamo vivendo – niente più e niente meno. 

Che naturalmente è già molto.

Ecco però che se non è propriamente derubricabile come sociologia, la sua è però una teoria priva di immaginazione, priva di visioni per il futuro che non esce mai dal seminato, non si perde in nessun bosco di senso, non si serve di invenzioni o narrazioni, ma risulta trasparente esattamente come la società che analizza non senza una certa amarezza.  Che è molto probabilmente anche il motivo per cui è così apprezzato da noi donne e uomini stanchi, il cui eros è in agonia mentre siamo attorniati da non-cose.

Han non ci chiede quindi di immaginare o di sognare, ma ci invita semplicemente a prendere coscienza, a fare i conti con una realtà dei suoi scritti cristallina, nuda, perfettamente aderente alla società che racconta.

E pur nello sconforto che il contenuto dei suoi testi provoca, il fatto che lui stesso, il suo potenziale filosofico siano così aderenti al vivere di uomini e donne della società senza dolore come noi, che con tanta lucidità descrive, disincanta e disillude (se ancora ce ne fosse bisogno) ma risulta vagamente consolatorio.

ARTICOLO n. 47 / 2021

IL BACIO DEL PESCE RAGNO

Tutto questo blu da vicino è trasparente e una volta dentro, multicolore.

Ci conoscevamo appena quando ti portai nell’oasi. Quel tratto di sabbia lasciata allo stato brado da chi si erge a protettore della natura. Senza una pulizia quotidiana attenta a lasciare al suo posto solo frammenti di conchiglie e alghe putrescenti, plastica, vetro e ferro la fanno da padroni. Frequentata da gente che per stare nuda si fa largo tra gli umani rigurgiti del mare e gente come noi: estranei ai cui occhi nuovi il mondo sembra da scoprire per la prima volta.

Non ci eravamo parlati molto e neanche il mare grigio accompagnando i granchietti morenti a riva faceva rumore.

Mano nella mano camminammo per più di un chilometro a balzi come fanno le coppie di pattinatori sul ghiaccio e, a grandi falcate, sorridendoci l’un l’altro, prendemmo il largo.

Ti fidasti di me da subito come se con me non potesse succederti nulla di male, anzi come se insieme potessimo affrontare qualunque cosa uscendone incolumi. Trovavi romantiche le avventure che ti proponevo. Mi trovavi romantico, fino a quando tutto questo non diventò patetico ai tuoi occhi e finì per diventarlo anche ai miei. Avrei dovuto iniziare a capirlo molto tempo fa ma ero troppo concentrato su me stesso per vedere che la tua vita andava avanti anche senza di me e che il mio sogno d’amore era soffocante e granitico, un macigno che non volevi ti trascinasse a fondo.

Come quella volta che mi ero incaponito e avevo organizzato tutto per portarti a dormire nella capanna del pastore sulla scogliera. Avevo provato a chiamarti al telefono quattro, cinque, sei volte perché se non fossimo partiti prima che avesse fatto buio non saremmo mai riusciti a percorrere il ripido sentiero di pietra e sterpi che portava al piccolo casolare a picco sul mare. Ti eri trattenuta in laboratorio fino a tardi come altre molte volte e la cosa mi aveva fatto infuriare. Non ti risparmiavi, per te il lavoro era una questione personale e rimanevi lì ben oltre l’orario concordato. Prendevi appunti minuziosi, stendevi relazioni accurate fino a notte fonda, e sono certo che fossi molto brava. Schietta e sincera, pragmatica. Mi era chiaro quanta importanza avesse per te il tuo lavoro. Ma era un’altra delle cose che rubava tempo a noi.

Quella sera ti aspettai in auto; mi dicesti, uscendo dalla Luccicante, che volevi passare in foresteria un momento, e dentro di me prese subito a montare la rabbia per il tuo ritardo. Mi sentivo messo da parte eppure, stolido e ostinato al limite dell’infantile com’ero, non rinunciai al mio progetto di portarti alla capanna. Perché tu non perdessi troppo tempo a cambiarti, ti seguii fin dentro, ma non eravamo soli. Ti infilasti nella stanza lavanderia e mi dicesti di aspettare, ancora. Io, spazientito, giravo intorno trattenendomi a stento dallo spalancare la porta socchiusa. Dallo spiraglio sbirciavo le tue mani massaggiare le mani dure della donna delle pulizie che intanto con voce sottile farfugliava qualcosa di indistinto tra i singhiozzi. Basta la nostra avventura ci aspetta! dicevo tra me e me. Attraverso la fessura della porta rifuggivi il mio sguardo impaziente e invece posavi il tuo, amorevole, su quello della donna. Una signora alta e secca, con i capelli raccolti malamente tinti di un rosso bordeaux che alle radici aveva sbiadito in arancione, più giovane di quanto la sua fatica potesse rivelare, trasandata e vestita con gli abiti che usava per andare a servizio, pantacalze fiorate, t-shirt con la pubblicità di un autolavaggio e ciabatte di plastica.

Ruppi quel raccoglimento urlandoti che ti avrei aspettato in macchina.

Lamentava la sparizione di sua figlia, mi avresti detto dopo. Di quella sua unica figlia bionda, preadolescente, longilinea e cavallina come lei, che non sarebbe più tornata.

Con il mio urlo a ogni modo raggiunsi lo scopo: la donna si era distratta, aveva staccato le sue mani dalle tue, ripreso possesso del carrello con secchio e detersivi e tu mi raggiungesti.

Appena saliti in macchina rimasi in silenzio e anche tu non pronunciasti una parola. Una volta arrivati nel punto in cui incominciava il sentiero, parcheggiai e scendemmo. Bisognava camminare e, mentre seguivi la luce della torcia qualche passo indietro, arrancando per il crinale del costone litorale profumato di erbe selvatiche e spruzzi di mare, mi urlasti il tuo disprezzo per me, insensibile e noncurante anche del dramma della giovane scomparsa e del dolore di quella madre perduta. Mi dicesti che ero egoista e insensibile, disinteressato al tuo lavoro e ai tuoi progetti. Che ero incapace di dedicarmi a qualcosa, di impegnarmi in qualcosa. Nullafacente senza aspirazioni. Fosti feroce e rabbiosa, e forse avevi ragione; forse per questo rimasi in silenzio senza controbattere.

Poi, una volta arrivati, piangesti e ti facesti abbracciare e consolare. Ti promisi che le tue parole non mi avevano sfiorato ma mentivo. Rimanemmo nella capanna di pietra fino alla mattina seguente, avremmo visto sorgere il sole.

Affondavano i piedi nella sabbia, a tratti dura e compatta, a tratti increspata dalle onde, a tratti molle come melma.

Volevo portarti nel posto più lontano in cui ancora potevamo toccare. Non era più possibile riconoscere i nostri vestiti lasciati a riva, né vedere davanti a noi la sponda opposta a decine di miglia oltre. In piedi in mezzo al mare come in un’enorme piscina, solo noi.

Fu allora, quando cauti iniziammo a staccare i piedi da quel limite di sabbia così lontano da tutto, che fui colpito. Il dolore lancinante rimase bloccato, concentrato, nel punto esatto in cui l’aculeo era entrato scattando come il meccanismo di una trappola dall’esile groppa dell’essere nascosto sotto la rena. In quello spazio sconfinato il mio piede lo aveva trovato e lui, sempre proteso in difesa verso l’alto, non si era tirato indietro.

Annaspai, e fosti tu a portarmi a riva, ad adagiarmi sulla sabbia, a trascinarmi all’asciutto.

Intanto il dolore mi riempiva, gonfiando il mio piede sinistro di veleno, lo strazio che si stava irradiando da sotto il secondo dito fino al cervello si sarebbe trasformato in un dolore mangia-carne. Sempre di più da lì alle prossime ore, lo sapevo. Fosti tu a passarmi la fiamma dell’accendino bic scovato scuotendo i miei pantaloni a rovescio per tentare di neutralizzare il termolabile fluido tossico. Sempre tu a recepire le mie indicazioni studiate sui libri o per sentito dire su come affrontare la situazione. Tu a reggere il mio peso a stampella fino alla macchina. Tu a guidare fino alla farmacia prima, alla guardia medica poi in quella domenica di fine settembre. Tu a prendere le mie chiavi dal cruscotto.

Varcammo così la soglia di casa mia per la prima volta insieme.

Rimasi a letto tre giorni e tre notti.

In preda alle dracotossine deliravo e facevo sogni agitati, ma quando aprivo gli occhi c’eri tu. O il tuo volto, i tuoi occhi bellissimi che mi scrutavano da vicino erano parte dei miei sogni? Avrebbe forse dormito placido per millenni non visto da nessuno il triste pesce drago nascosto in fondo al mare, se con il mio tocco di bacchetta magica non lo avessi risvegliato dal suo atavico torpore.

Più simile a un’iguana per la pancia schiacciata a terra, le pinne laterali con le quali sembra tenersi stretto alla sabbia e la nera cresta dorsale velenifera che incornicia il grosso volto di rana come una corona, gli occhi a palla sempre socchiusi e la smorfia della bocca verticalmente rivolta all’ingiù più che pauroso lo fanno sembrare triste e ottuso. Come cane alla catena se ne sta in perenne attesa, raggomitolato a guardia dei suoi piatti fondali pronto a scacciare chiunque non ne voglia capire la regalità. Con la sua aggressività ostentata, unico suo modo di essere, che cosa vuole proteggere? A chi porge i suoi meschini servigi? È di suo dominio il regno della melma?

Sei rimasta ad accudirmi per tutto il tempo, per te un quasi estraneo, muovendoti liberamente in casa in una casa in cui non avevo fatto in tempo a invitarti.

Mentre imparavo il cerimoniale del duello col pesce ragno fatto di affronti fieri e spettacolari danze intimidatorie, di sguardi fissi, balzi e contorsioni, tu trovavi dove tenevo il caffè, prendevi le misure con i serramenti e gli interruttori, curiosavi forse nei miei cassetti, riempivi il frigo con fugaci uscite verso l’alimentari di paese. Eri bella in casa mia.

Se quando aprivo gli occhi non incontravo i tuoi, bastava volgere l’orecchio verso la cucina per sentire il rumore di qualcosa che stavi preparando o della tv che tenevi a fil di voce per non svegliarmi.

Così, mimetica, ti sei infilata in una vita non tua per amor mio. Così, mimetica, sei entrata nella mia vita e nelle mie stanze facendole tue. Mi crogiolavo nel piacere di averti lì con me, premurosa e preoccupata per il mio stato di salute.

L’incubo del pesce ragno non mi ha più abbandonato per giorni, sdraiata al mio fianco, mi tamponavi la fronte madida di sudore a causa del veleno e io ti raccontavo la sua storia. Me lo immaginai custode del grande vulcano e iniziai dicendoti che c’era una volta il luogo remoto in cui giace addormentato un colosso degli abissi e che io una volta volli andarlo a trovare. Tu, la mia piccola attenta con gli occhi spalancati dalla curiosità, io il tuo cantore di storie.

Al centro esatto del mare, protetto della curva dolce che la punta della penisola forma con l’isola grande, nel punto più remoto un colosso degli abissi giace addormentato.

Andai a incontrarlo qualche tempo prima di conoscerti, quando il mio unico interesse era capire come e quanto e perché appartenessi al mare. 39°15’00″N 14°23’40″E centoquaranta chilometri dalla costa est, centocinquanta dalla costa sud, le coordinate precise che da allora per abitudine recito a memoria neanche fosse una cabala o una formula magica. Andai sfruttando un viaggio organizzato dal Centro per rilasciare i brevetti istruttori. Eravamo quindici tra esaminatori e esaminati, per congedarci decidemmo di raggiungere la città sommersa; era dicembre.

Arrivammo con un pullman affittato apposta, troppo grande per noi, viaggiammo di notte e all’alba ci facemmo largo nelle strade strette ricavate tra antichi templi e i moderni impianti di depurazione dei molluschi fino a fermarci davanti alla sbarra di accesso.

Avevamo tre giorni; i primi due li avremmo passati a completare le esercitazioni per il rilascio del brevetto professionisti, il terzo avremmo partecipato alla realizzazione del presepe subacqueo. Ma io avevo altri piani, avrei disertato la deposizione della Madonna per raggiungere il mio centro del mondo.

E così al porto trovai qualcuno che potesse accompagnarmi e mi misi d’accordo per un’escursione in barca.

La Sirena dei Mari, così si chiamava, non aveva grandi attrezzature e trovare il punto corrispondente all’apice non fu semplice. La giornata era tiepida e l’energia che sentii avvicinandomi fu enorme. Mi preparai come se dovessi incontrare il mio Dio: una forza magnetica mi attirava e mi tratteneva. Scesi in immersione sapendo che sarebbe stato un incontro virtuale, eppure mi bastava. Cinquecento metri sopra la sua testa, non vidi neanche un granello della roccia che lo formava, ma sentii comunque forte la potenza del magma solidificato nei millenni che si innalzava mastodontico dal fondo per quasi quattro chilometri.

Il più grande vulcano d’Europa, cuore nascosto del nostro mare, probabilmente il maggiore responsabile delle fattezze della porzione di mondo in cui le vite nostre e dei nostri antenati hanno proliferato. Divinità dormiente posta nel punto più profondo, tana magica e incarnazione del pesce-incubo che avrebbe animato i miei deliri di fine settembre. Giorni sospesi in cui tu facevi incursioni salvifiche nei miei sogni e soprattutto nella mia realtà.

Un dito mi sei costata.

Il secondo dito del piede sinistro, che da allora non posso più piegare, ho sacrificato al pesce-drago, dio di tutti i fondali che osai calpestare, per ricevere le tue cure e i tuoi baci d’amore.

L’immersione sulla sommità del vulcano durò poco, il cielo bianco di dicembre di colpo si rannuvolò e il mare viola e opaco in cui ero iniziò subito ad agitarsi. Tornammo al porto sulla più che traballante Sirena dei Mari. Sapevo di essermi avvicinato all’essenza salvifica dell’acqua, l’origine delle cose. Arrivai giusto in tempo per rituffarmi nelle placide acque della città sommersa.

Con gli allievi istruttori ci muovemmo in bassi fondali antropomorfi incontrando gli sguardi di marmoree popolazioni a guardia della città balneare più in voga dell’antichità che, complice un’esplosione di fuoco del mio padre vulcano, il mare volle fare sua. Ci infilammo nei discorsi bloccati da secoli di creature ibride, ormai colonizzate da attinie e alghe, crostacei e policheti fissili, coralli e gorgonie; esseri curiosi di carpire gli umani segreti forse nascosti nelle espressioni di quei volti fieri e nelle gestualità auliche di statisti e guerrieri valorosi. E soprattutto tra i riccioli scolpiti delle splendide capigliature di divinità terrestri.

Trovai i miei compagni sul fondo, in uno spiazzo mosaicato più o meno circolare rubato al moto naturale della rena nello sforzo coprire tutto ciò che era stato il pavimento di una villa imperiale, adagiati come le statue che contemplavano e mi aggiunsi a loro, mentre dall’alto, ben imbragata, la statua della Madonna veniva lentamente calata in mezzo a noi.

Vorrei essere tornato con te nell’abisso, averti portata a conoscere l’energia vulcanica sommersa che dà vita alla terra e al mare, perché tu per me sei stata quella precisa forza vitale, il mio vulcano sommerso, la mia tana magica.

Ho provato a trattenerti, a offrirti la bellezza e l’immortalità dell’esistenza, ma ti mentivo come fanno tutti gli innamorati perché nulla è immortale qui. Per qualche tempo tu sei stata la mia eroina salvifica ma poi sei andata via con forza, hai reagito in modo così poderoso all’aborto ricoprendo di lava incandescente il nostro rapporto, scuotendo con violenza la mia esistenza. Forza che genera e che distrugge. Tu sei sempre stata la forza mentre io evidentemente non ho mai saputo dimostrartene. Ma se riuscissi a trovare la ragazza scomparsa in questa profondità che ribolle di energia mortifera, forse potrei provarti che anche io so reagire ma che la mia energia è simile a quella delle onde che poi si disperdono, inafferrabile come la fissità del mare.

— Il testo di Caterina Mazzucato è ripreso dalle pagine di Io sono il mare.