Antonio Pascale

ARTICOLO n. 103 / 2025

QUANDO FINISCE UN’ATTESA

Come fosse un calendario dell’avvento, una serie di contributi su cosa attendiamo, su cosa dobbiamo o speriamo di attendere. E anche su cosa significa attendere e l’attesa in sé. Da oggi fino al nuovo anno, L’attesa accompagnerà i lettori di The Italian Review.

Negli anni, ho sviluppato la capacità di accorgermi del momento esatto in cui la festa finisce, quando, metti i discorsi incartapecoriti, metti i giochi di seduzione ormai finiti, metti il sonno che avanza, quando, insomma, capisci che è ora di andartene. Tuttavia non riesci a farlo, qualcosa ti lega alla festa, alla vita, alle promesse: forse c’è un ultimo bicchiere da bere, qualcosa da assaggiare, un piacere da provare, forse posso fare un’ultima conversazione con lei o con lui, per ottenere qualcosa, forse questo e quest’altro. Ecco, negli anni, mentre tutti si consumano per assaporare le promesse nascoste, bruciare le ultime attese di vita, io, al contrario, ho imparato a individuare il momento preciso in cui la vita si trasforma in finzione, le attese in delusione, e dunque, quando ancora tutti ballano, me ne vado: la festa è finita, inutile insistere, i giochi sono fatti, addio alle speranze, alle attese, alle promesse. Dopo qualche giorno, passata la festa, incontro qualcuno che era lì che mi dice: sei scostumato, andare via senza nemmeno salutare sul più bello, sei pazzo.

Certo, ho la sensazione che ormai vengo invitato alla feste in quanto testimone. Testimonio con la mia fuga la fine delle attese, dell’esaurimento delle risorse, le promesse ormai andate, della vita che cambia passo. Finisce che inconsciamente o meno le persone guardino me, appena vado via, anche gli altri si precipitano. Se poi qualcuno, giorni dopo, incontrandomi, mi dice: sei scostumato, te ne vai e nemmeno saluti, io cerco di spiegare che provo fastidio verso le luminarie natalizie ancora accese dopo l’epifania. Embè? – risponde quello – sei scostumato lo stesso.

Le luci natalizie accese dopo il sei gennaio fanno malinconia. Se ormai il Natale è passato che senso ha ricordarlo? Che attese natalizie ci possono esserci dopo il sei gennaio? Perché tenere ancora accesa una festa quando invece è finita? Che tristezza: le luci natalizie accese e tutto il côté di addobbi ancora esposti in ogni dove.

Purtroppo, non tutti notano questo scollamento tra luci accese e attese finite. Comunque, non ci soffermiamo più di tanto. Forse è giusto, pensare a questo scollamento vuol dire anche affrontare un paradosso.

A proposito di paradossi. Per me il Natale finisce il 23 dicembre, quando sei ancora in giro per le strade e incontrando le persone chiedi cosa fai il 24 dicembre? Con chi mangi, che mangiate? Aprite i regali la sera del 24 o la mattina del 25? Il 24 mattina, appena sveglio, capisco che tutto è finito e comincio a provare un certo fastidio per le luci natalizie ancora accese. La festa è già finita, se potessi andrei via. Spesso sparisco dalla circolazione prima dalla mezzanotte del 23. Siete in attesa delle promesse del Natale? Beati voi, non vi accorgete che è tutto finito? Meglio mollare subito la presa piuttosto che constatare con sgomento che tutto quello che avete sperato per questo Natale è lontano dal realizzarsi. 

Non è stato sempre così. Per esempio, da piccolo, per me il Natale non finiva il 23 dicembre ma molto dopo, prima della cena del 31 dicembre. Poche ore prima del cenone c’è un aria di attesa molto salutare. Siccome si aspetta il nuovo anno si è più propensi alla bontà, è come se si aprisse la strada al nuovo che sta per arrivare. Siamo tutti più rilassati e fiduciosi prima della cena del 31. Devo ammettere, pur con una certa riluttanza, che l’atmosfera in certi casi è così bella che è doveroso oltre che fonte di piacere, assaporarla tutta. Non solo vivendo, ma anche osservando la vita che rilassata e senza tensioni scorre in uno stato di beatitudine. 

Momenti simili sono rari. Non riconoscerli significa fare un danno all’attesa. Ma è pur vero che momenti siffatti hanno un forte contraltare. Pochi momenti dopo la mezzanotte, siamo infatti giù ubriachi, non a causa della felicità, non perché l’anno vecchio è finito e qualcosa di nuovo arriverà da qui a poco, ma al contrario: ci siamo già resi conto che dal nuovo anno non arriverà niente di nuovo, meglio berci su e dimenticare le promesse attese. Negli anni, il contraltare è stato più evidente, anche per questo e non solo per paradosso, mi sono reso conto che il Natale finisce il 23 dicembre e le feste molto prima di quanto credi, in ogni caso è inutile insistere con l’attesa e gli sforzi: ne ricaveresti infatti una spiacevole sbornia dalla quale poi è difficile riprendersi.

Quando mi dicono: sei scostumato, sei pesante, sei asociale, sei pazzo ad andare via a giochi iniziati, io scherzo, dico sempre: per me il Natale finisce il 23 dicembre, figurarsi una festa. Eppure, prendendomi gli insulti non ho mai il coraggio di aggiungere il carico da novanta, e cioè confessare che per me la vita finisce dopo ogni risveglio mattutino. Che poi, per carità, ovviamente mi sveglio e vivo, ma guardo il mondo come lo osservo dopo il 6 gennaio, quando la sera si accendono ancora le luci, nell’attesa di qualcosa, della seconda occasione, di chi è in ritardo, di chi ha un altro passo, un ritmo diverso. Capisco le motivazioni, certo, ma non le sento, dunque non esco dopo il sei gennaio, mi prendo le ferie per non vedere le luci accese.  

Una lezione di filosofia o di letteratura che si rispetti dovrebbe tenere presente del momento esatto in cui la festa finisce, ma questa procedura è ora rubricata sotto la voce pessimismo, e quindi non viene accolta. In fondo durante una qualsiasi lezione di filosofia o di letteratura, sotto sotto, festeggiamo la forza della storie. Festeggiando la forza delle storie, la bellezza e la vitalità del pensiero, non ci rendiamo conto del pericolo delle storie, nonché dell’assurdità del pensiero. Il pensiero infatti, come il suo miglior derivato, ovvero le storie, potrebbe essere nient’altro che un escamotage inventato dalla nostra coscienza per stare a galla e affrontare la vita. Niente di male, di sicuro è un comportamento che rispetta la fisiologia di noi umani dotati di una coscienza così piena, ma di contro, questo comportamento così umano non ci permette ci capire che il non umano non è poi così male. 

C’è qualcosa in noi, qualcosa di molto intimo e dunque irrappresentabile, qualcosa che funziona come un’infallibile sonar. Quella sensazione che provo e che mi avverte che la festa è finita, funziona anche in senso più ampio, il sonar non è locale, è un sonar ontologico che ci avverte: è tutto finito, attendere il giorno in cui saremo felici e in cui tutto sarà armonico e piacevole, questa attesa è il vero pericolo della vita. È un pensiero sano, giusto, ma lo riteniamo ingiusto e compromettente, e dunque invece di vagliare il suddetto pericolo che la nostra coscienza più intima ci segnala, per poter continuare a vivere ci inventiamo la storia per cui la festa è ancora in corso, le luci meritano di essere accese per illuminare qualcosa, che dopo il sei gennaio qualcosa accadrà. 

Facciamo lezioni di filosofia e di letteratura celebrando la vita, invece sarebbe saggio segnalare la fine della festa – anche se, negli anni, diciamo perché nutro questa sensazione di essere invitato alla feste solo in qualità di testimone della fine della festa stessa, in questi anni – dicevo – ho maturato la speranza che qualcosa sia cambiato. Che insomma chi dice che le attese sono finite, i giochi fatti, il futuro è già andato, e lo dice incurante di chi al contrario insiste, tignoso, che c’è ancora vita e ottimismo a schiovere, insomma uno così non è uno scostumato, asociale, ma un profeta sui generis. Uno di quelli – e io potrei essere nel gruppo – che ci mette in guardia sui pericolo di tante attese. Non solo perché verranno deluse ma soprattutto perché le attese hanno un retrogusto che non vogliamo assaporare, quel tipo di retrogusto che ti lascia in bocca l’amara sensazione che tanto sarebbe guadagnato se invece di conquistare l’organico fossimo rimasti nell’inorganico. 

Comunque, anche se forse qualcosa è cambiato, anche se mi invitano alle feste in qualità di testimone ma anche per rimproverarmi il giorno dopo di aver testimoniato, sono sempre più sicuro che la mia sia una sensazione non comune e comunque improduttiva, un retrogusto che non serve. Difatti, quando me lo ricordano, annuisco, faccio battute sul Natale e sulle sue luci, metto in atto la necessaria ironia, qualcosa che mi rende simpatico, un po’ buffo, ma inoffensivo. Insomma non ho il coraggio di confessare: per fortuna, non soffrite della paralisi del sonno. 

In gergo medico si chiama così, paralisi del sonno. Altro non è che la spiacevole, in molti casi orribile sensazione, di non riuscire a svegliarvi anche se lo desiderate, anche se chiedete con tutte le forze al vostro corpo di muoversi, non vi muovete. Dovete svegliarvi – vi dite – qualcosa vi chiama alla vita, le luci di Natale accese e mille feste da vivere intensamente e da consumare spendendovi con passione, ma niente, il vostro corpo non reagisce agli stimoli. Qualcosa non vi fa muovere, c’è un blocco, la forza di gravità è così forte che a ogni movimento corrisponde uno sforzo tanto grande da annullare il movimento stesso. Ogni desiderio di vita corrisponde a una forza uguale e contraria che vi trattiene nel limbo del sonno. 

Il limbo non è solo una dimensione, ma un suggerimento, uno che vi dice: non vale la pena vivere la primavera, i fiori che fioriscono, la vita che danza, le dinamiche degli umori che si intrecciano come magnifiche ragnatele i cui nodi brillano al sole e disegnano l’orizzonte: è tutto un inganno, vivete sì, ma è già tutto passato, finito. Le storie che dovrebbero descrivere la vita altro non sono che un prodotto ben funzionante. Le storie vi illudono che la vita abbia senso ma sono il responsabile anche dell’insensatezza della vita stessa, di fatto, ogni tanto le storie crollano e ci troviamo indifesi perché non abbiamo una storia che racconti l’insensatezza e nemmeno la bontà del limbo. Il limbo difatti è un buon e onesto suggeritore che vi dice: meglio restare nell’inorganico.

Non diamo retta al suggeritore. Tutte le nostre storie e le nostre lezioni di letteratura e di filosofia altro non fanno che mettere alla berlina quel suggeritore. Le storie ci dicono che quel testimone è inaffidabile, uno scostumato, di sicuro asociale, non dovrebbe essere invitato alla feste, anche se c’è qualcuno che si ostina a farlo, anche per prenderlo in giro il giorno dopo.

Le storie ci dicono che vogliamo vivere ed evadere dal limbo, così da essere introdotti alla festa della vita che si dischiude davanti a noi, e per noi. Ma è proprio il contrasto tra l’attesa della primavera e il tepore dell’inorganico a generare la paralisi del sonno. Il suggeritore fa di tutto per avvertirci, spesso ci mostra i veri effetti della vita: appaiono demoni, streghe, fantasmi. La vita – ci dice il suggeritore – in filigrana altro non è che un insieme di immagini infernali. Il suggeritore aggiunge: non perdete tempo ad attendere la vita, tornate nel sonno.

Poi, vince spesso la vita, dunque vi svegliate, riuscite a muovermi, certo angosciati per lo sforzo che avete compiuto e solo per muovere un braccio, e vi immergete nella festa, aspettate il capodanno, il brindisi, ma con il passar del tempo, quando i sensi vi rispondono e il corpo è di nuovo scattante, pur vivendo, pur frequentando la vita di ogni giorno, pur in fondo sorridendo alle luci che brillano sopra di voi, voi che soffrite della paralisi del sonno vi portate e sempre vi porterete accanto alla vita un macigno: il macigno rappresenta lo sforzo che avete fatto per svegliarvi e godervi la festa della vita, il macigno è un avvertimento, un attimo, la festa finisce e piombate giù. Il macigno è un suggerimento, se non tornate alla vita evitate anche il peso della vita.

Sia come sia, sta di fatto che nei confronti delle attese della vita molti mi giudicano uno scostumato, uno che se ne va sul più bello, non nutrendo dunque speranza nel bello della vita che da qui a poco ci avvolgerà. Forse hanno ragione, e cerco di capire le loro ragioni e dunque mi adeguo, credo anche io nella vita e invento ogni tipo di storie e giuro sulla loro forza, sottovalutando o ignorando il pericolo delle storie, e insomma, faccio come voi tutto pur di non parlare della paralisi del sonno: la prova più evidente che non è tanto la vita a essere dolorosa ma il ritorno alla vita.

Altro ci sarebbe da dire, per esempio, indagare se l’obiettivo che ci siamo dati per rimanere in vita e dunque ignorare il suggeritore sia valido o al contrario solo una finzione teatrale, se l’appuntamento che abbiamo preso per svegliarci e con prepotenza immergerci nel flusso sia il miglior modo per vivere con intelligenza la vita o il miglior modo per ingannarci sulla vita, se cioè l’appuntamento ci fa diventare così cretini che ignoriamo i suggerimenti e la verità contenuta nel limbo del sonno. 

Ci sarebbe da indagare, ma comunque ora vi lascio, sono in ritardo a una festa, mi dicono che sarà bellissima, io vado, sono stato invitato.