Allegra De Mandato

ARTICOLO n. 66 / 2025

SUL PREMIO STREGA 2025

Andrea Bajani, "L’anniversario"

Pars destruens 

Ho appena terminato la lettura del romanzo vincitore del Premio Strega 2025, ma devo ammettere che è stata un’impresa più faticosa di quanto avessi immaginato. Il testo procede con un’incisività piatta, senza guizzi stilistici, privo di un vero slancio linguistico: asciutto, secco, e francamente monotono. Più che un romanzo, sembra un dispositivo narrativo costruito per rientrare in certi schemi e fin troppo snello, per fare un paragone con il mio ambito — quasi un cortometraggio che si affida a una frase d’effetto finale per dare senso a tutto il sistema.

Ciò che più mi ha lasciato perplessa è il punto di vista adottato: il racconto, cupo e impenetrabile, è filtrato da una voce narrante non tanto sofferente quanto rigidamente puntigliosa e sorprendentemente anaffettiva. Non è soltanto il peso di una famiglia disfunzionale — dominata da un padre freddo, violento o comunque opprimente — a rendere faticosa la lettura. È, piuttosto, una sorta di apatia di fondo, un’inerzia esistenziale che avvolge ogni pagina, rendendo l’esperienza della narrazione più mortifera che riflessiva. L’impressione dominante non è quella di un’esplorazione catartica del dolore, ma di un suo resoconto implacabile, distante, che non lascia spazio né al riscatto né alla complessità emotiva.

I personaggi sembrano non emergere mai davvero. Restano ombre, figurine inchiodate a ruoli narrativi più che esseri viventi con contraddizioni e sporgenze. Né la madre, né il figlio-narratore, né tantomeno la figura paterna trovano una forma compiuta che li faccia “apparire” davvero al lettore, come presenza viva. È come se la scrittura si limitasse a un reportage dei fatti e dei sentimenti, senza alcuna emanazione evocativa.

L’ambizione evidente è quella di raccontare il patriarcato non solo come struttura sociale dominante, ma come dinamica interiorizzata, riprodotta a ogni livello — pubblico e privato, sociale e familiare anche da chi ne è vittima, diventandone complice. Ognuno, a suo modo, concorre a perpetuarlo: madri, figli, vittime e carnefici, consapevolmente o meno. In questa prospettiva, il patriarcato non è solo un’eredità, ma un gioco oscuro a cui tutti partecipano secondo il proprio ruolo, anche contro la propria volontà. Eppure, proprio in questa messa in scena corale, qualcosa non riesce a compiersi.

Il padre, figura centrale nella dinamica oppressiva, finisce per essere quasi assolto, o almeno ridotto a emanazione di un male più ampio, sistemico, come se il racconto — pur volendo denunciarlo — ne giustificasse i comportamenti attraverso un riferimento implicito a una sofferenza psichica mai realmente indagata. Una diagnosi mancata che sembra voler spiegare tutto, come se dire “era malato” bastasse a contenere e chiarire l’intero orrore.

Ma la letteratura non dovrebbe forse proprio mettere in crisi questi automatismi di pensiero? Non basta, credo, accennare a una dinamica tossica, o dichiararla: è necessario farla esplodere dall’interno, mostrarne le crepe, le contraddizioni, anche nei personaggi secondari. Qui, invece, ogni figura sembra disegnata per “funzionare” nel meccanismo del racconto, senza margine di imprevisto. Nessuno sfugge davvero al proprio destino narrativo, neanche il lettore.

Al di là dei temi, che naturalmente sono rilevanti, urgenti, e necessari da esplorare, ciò che ho trovato più scoraggiante è la mancanza di una minima parvenza di gioia nella lingua di afflato linguistico. Ho faticato a portare a termine il libro sicuramente per via della sua struttura predefinita, prevedibile, per cui non è possibile aspettarsi nulla se non quello che (non) accade, ho dovuto sforzarmi di leggere parola per parola, senza concedermi quella lettura “per blocchi” che si riserva ai testi più aridi, proprio perché temevo che ogni minimo spostamento lessicale potesse finalmente generare un cortocircuito rivelatore. Ma non è mai successo.

Non una frase, non una scelta lessicale, non una giustapposizione di immagini è riuscita a creare un altrove, un’apertura simbolica, un’eco che restasse nella mente o nel corpo. È un romanzo in cui si può riconoscere l’efficienza del progetto narrativo, la coerenza tematica, perfino il coraggio di affrontare certi nodi familiari e politici. Ma non c’è incanto. Non c’è enigma. Non c’è quella vibrazione che fa della letteratura qualcosa di più di una somma di argomenti. 

Mi permetto questa riflessione prima di tutto da lettrice delusa, e allora mi chiedo, con autentica perplessità: se questo è stato il miglior romanzo italiano dell’anno, davvero tutto il resto della produzione narrativa è inferiore o comunque meno rilevante? Oppure siamo in un momento in cui anche i premi più ambiti finiscono per privilegiare opere che rispondono a criteri di correttezza tematica più che di audacia artistica? È possibile che nella ricerca di testi “giusti”, si perda di vista il gesto letterario nella sua essenza più profonda?

Pars costruens 

A volte mi capita, una sorpresa, un libro che inizio con un pregiudizio negativo e che poi mi seduce totalmente. Sono certa mi deluderà, non lo leggo per altro motivo che per avere conferma del mio pregiudizio, per una sorta di masochismo letterario… eppur si muove, diceva qualcuno. Eppure succede qualcosa, qualcosa che nella lettura mi riempie sempre di gioia e sorpresa. Cambio idea e mi succede subito, appena inizio a leggere.

D’altronde per me l’inizio e la fine di un libro, di un film, di una qualsiasi storia sono la mia cosa preferita, se mi folgorano difficilmente l’opera mi deluderà.

«L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta per salutarmi», così, sono dentro, maledizione e al tempo stesso evviva,  il pregiudizio mi ha totalmente abbandonato, leggo e basta. Sono dove non mi sarei mai aspettata di essere, siamo io e il libro, sarà così per tutto il pomeriggio che durerà la mia lettura.

Bajani è il narratore di una storia che non mi lascia tregua, che in maniera stranamente sincronica con la sua vicenda mi fa cancellare l’appuntamento con mia madre del pomeriggio per poter finire la lettura, che mi apre spiragli inaspettati, fuori 36 gradi di una Bologna immobile di umidità e afa e dentro il gelo di una storia in cui la violenza è tanto forte quanto non “gridata”.

C’è un sottotitolo che è importante, un’avvertenza forse, un’istruzione per l’uso, un romanzo. Sotto il titolo campeggia seppur in piccolo, un romanzo, non autofiction dunque, non un memori, un romanzo. Letteratura. 

Eppure, eppure il narratore parla in prima persona in maniera fortemente e apparentemente biografica, è uno scrittore, parla di scrittura, semina dettagli che raccontano un Io, ma l’espediente narrativo è creare distanza, senza cedere all’emotività del memoir.

È una storia vera?

È la storia di Andrea Bajani?

Non importa, lo sdoppiamento arriva, io entro in contatto con personaggi e non con persone, io sono dentro a quel sottotitolo, sono in un romanzo.

Un romanzo borghese, dove la violenza è presente ma non è urlata, è terribile ma non è dentro la periferia urbana in cui viene sempre relegata, è una violenza patriarcale di un Padre ma di cui la Madre è vittima eppure complice insieme. Eppur si muove…lei non è un personaggio passivo, è un patto quella fra i due personaggi «lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa. Il che forse più che un fraintendimento fu in qualche maniera un patto mai espresso, il loro segreto».

Il Figlio è di troppo, non è parte del patto, non è un eroe, non fa altro che cercare di capire ma senza entrare nell’equazione, solo una è la scelta che fa, la fuga. Pagina tre, «dieci anni fa, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita».

Subito nel principio la fine, lì io ho deciso che quel pomeriggio io dovevo finire di leggerlo questo libro arancione, abbacinante, in cui il viaggio a ritroso non avrebbe avuto un finale a sorpresa, nel quale non ci sarebbe stata immedesimazione perché il distacco è la sua potenza.

Ti prende a pugni Bajani, con uno stile lontanissimo da quello che mi appartiene e che è la mia tazza di tè, nel frattempo, scrivo a mia madre «ho un mal di testa fortissimo, meglio che non esca con questo caldo, ci vediamo domani», penombra, pale del ventilatore che muovono un’aria rarefatta e dieci bicchieri d’acqua a dividermi dalla fine di un romanzo che ero certa avrei detestato.

Tre personaggi a loro modo terribili, a loro modo vittime e carnefici, certo il Padre è il simbolo della violenza, la esercita e la pratica ma ognuno dei tre personaggi sta dentro la fotografia almeno finché il Figlio non decide di uscirne, con la ferita esposta e il vuoto in un angolo della mente e della stanza.

Mi ha lasciato stupefatta, messa anch’io all’angolo e allucinata l’uso della lingua, il fare letteratura con la violenza e non esprimerla mai se non con immagini inaspettate, una donna che per sua scelta si lava i denti con l’acqua dello scarico del water, per non disturbare, per non esistere, è molto più violento di un uomo che picchia una donna. Soprattutto è letteratura e non è cronaca, è sfumatura e non è grido, è qualcosa che cerco da una storia, esattezza e non verità. Eppur si muove. 

Il tema di questo oggetto narrativo che più leggo, più riconosco come definito nel sottotitolo romanzo, è la sottrazione, il non voler esistere o il voler fuggire, la Madre resta, il Figlio fugge ad una violenza che è anche fisica ma che è soprattutto quello che non c’è. 

Ripenso mentre leggo proprio agli Afterhours, a quella canzone, “a quella foto di pura gioia e di un bambino con la sua pistola che spara dritto davanti a sé, a quello che non c’è”…in questa storia apparentemente nessuno spara, non succede quasi nulla, eppure succede tutto, in quel modo borghese in cui le cose succedono, non si spara, non ci si vendica ma si scappa. Si prende distanza, ci si sottrae, ci si nasconde.

Nessuno salva nessuno.

Ultimo bicchiere d’acqua, ultime pagine, ancora fa troppo caldo per aprire i vetri e gli scuri, penso a quei personaggi secondari che restano sullo sfondo, la Sorella, la Moglie, persino il bambino, soprattutto la strana terrificante psichiatra, un coro che non prende forma eppur si muove.

Il letterario e il metaletterario che si sposano, libri letti, lettere scritte, biglietti, c’è qualcosa che non torna, ma mi ricorda Vitaliano Trevisan che diceva qualcosa che non ricordo perfettamente ma che suona come «i conti in letteratura non devono mai tornare».

Ho finito, è arrivata l’ora di aprire le finestre, di far entrare aria e luce.

Di bere l’ultimo bicchiere d’acqua e respirare. Ho il fiato corto ma gratitudine verso quella parte di me che sa mettere da parte i pregiudizi, almeno con le storie.

Dialogo

La cosa sorprendente — che in parte già mi confuta — è che proprio quegli aspetti che io ho trovato deprimenti e privi di afflato, per te sono segnali di rigore narrativo e coerenza. Ciò che a me è parso un incedere funesto, lineare, mai tentato dalle deviazioni laterali, tu lo leggi come accompagnamento semantico, come adesione piena a una forma che si fa contenuto. L’asciuttezza tagliente che a mio avviso appiattisce i personaggi in un catalogo di tipi narrativi, per te assume la forza degli archetipi. Dove io ho visto una povertà descrittiva, tu hai trovato essenzialità.

E questo tuo entusiasmo – sincero, partecipe, intelligente – mi fa bene. Mi restituisce, se non proprio entusiasmo, almeno fiducia in chi seleziona, premia, fiducia insomma nel buon operato delle istituzioni letterarie nazionali e nei suoi sistemi.

Ma allora ti chiedo, con curiosità autentica: dopo quel bicchiere d’acqua, dopo l’apertura simbolica delle tue grandi finestre che sovrastano uno dei più tipici e caratteristici piccoli portici bolognesi, dopo il respiro di sollievo per aver terminato il libro (respiro che condivido!)  cosa ti rimane davvero? Cosa ti porti dietro di questa storia? A quale personaggio farai appello nelle tue passeggiate solitarie? Quale voce ti accompagnerà nei giorni futuri, quale frase risuonerà dentro di te come eco di qualcosa che ha lasciato traccia?

Personalmente, nelle mie guidate solitarie su e giù tra città e periferia, non mi è mai tornato spontaneamente alla mente. Forse perché mi è difficile aderire a un dispositivo narrativo così borghese, per struttura e intenzione. E quelle rare volte in cui ho volontariamente riportato alla memoria L’anniversario, ho provato una specie di fastidio: non per ciò che racconta, ma per il modo in cui lo racconta.

C’è in questo romanzo mi pare, una scoperta tardiva dei fatti da parte del narratore, una sorta di consapevolezza dilatata che pretende di guidare il lettore in un percorso ormai noto, forse addirittura ovvio. Come se l’emersione del tema bastasse a legittimare il gesto letterario. Ma noi lettori, oggi, siamo forse più avanti. Il patriarcato, la sua interiorizzazione, le sue forme sottili e brutali: tutto questo è già al centro del dibattito contemporaneo, raccontato e analizzato in modi spesso più sfaccettati, complessi, stratificati.

In questo senso, L’anniversario mi è sembrato arrivare in ritardo, o meglio: fermarsi un passo prima. Perché esporre non è ancora interrogare, e mettere in scena non coincide con mettere in crisi. E quando la letteratura non si spinge fino a quel cortocircuito, per me resta il sospetto che qualcosa sia mancato. Non nei temi, ma nello sguardo.

Dopo alcune settimane dalla lettura, ora con davanti un caffè e una notte insonne dopo festival, con davanti agli occhi un fresco cielo delle colline piemontesi e un gallo che canta, leggo le tue impressioni e metto in dubbio le mie…

Ripenso a cosa mi è rimasto di quell’entusiasmante pomeriggio di lettura, un’esperienza quasi fisica che ho vissuto leggendo e che ora mi chiedo, perché tu saggiamente e provocatoriamente mi chiedi, cosa mi è rimasto?

Mi è tornato alla mente qualcosa?

Ci ho ripensato nelle pieghe delle mie giornate?

Sì e no… hai ragione quando dici che forse si ferma prima di attaccarsi addosso ma d’altra parte il protagonista, insopportabile eppure che sento a tratti simile nel voler fuggire lontano e non affrontare le cose, che in questo sento amico, vigliacco ma in fondo prepotente nel voler scegliere sé stesso ad un certo punto… lui mi rimane sulla pelle, lo odio e al tempo stesso gli voglio bene.

Poi ci sono gli altri personaggi, che hai ragione, mancano di spessore, ma non sono forse funzioni narrative e non personaggi in senso stretto? Sono forse più vicini a Jon Fosse che a Balzac?

Allora ti chiedo, che sia la scrittura maschile che ha perso di forza narrativa?

Non vuole essere femminismo fine a sé stesso o pseudo misantropia ma una riflessione più profonda…

Forse Bajani voleva fare Annie Ernaux senza averne la forza e la potenza letteraria?

Il gallo canta, le campane suonano e forse pioverà per una mezz’ora e io m’interrogo su un’altra cosa e te la giro, ci serve sempre l’empatia quando leggiamo?

Questo gioco dell’io letterario funzionerà all’infinito o sta stancando?

E tornando al nostro amico\nemico Bajani che ci sta tenendo vicine nella lontananza, se un romanzo ha uno sguardo che ti è respingente non ha comunque fatto il suo dovere non lasciandoti indifferente?

Non lo so, una cosa la so, quella psichiatra a tratti insopportabile è un personaggio letterario a tratti sublime secondo me e al tempo stesso, ripensandoci oggi, con la distanza di un pomeriggio diverso dall’altro, forse è un’occasione mancata.

Ti aspetto…

P.S. Non ti ho risposto forse, vero?

Sull’idea che ogni testo, ogni storia debba innescare una risposta emotiva e immaginativa nel lettore, non ho dubbi. La narrativa deve essere sempre empatica: quando non lo è, manca l’obiettivo. È in questa mancanza di coinvolgimento che ho percepito, nel romanzo, il suo limite maggiore.

Ma vorrei partire dalla fine, da un dettaglio che avevo colto senza davvero riconoscerne la portata, fino a quando non ho avuto la possibilità di rileggerlo attraverso la tua lente. E sì, mi hai risposto eccome. È la terapeuta, ora lo vedo chiaramente, l’unico personaggio davvero “da romanzo”, nel senso più pieno e stratificato del termine: sfaccettata, ambigua, millenaria, sfuggente. Una figura che incarna un sapere sul patriarcato che non denuncia né amplifica, ma “normalizza, nel senso che riportandolo all’interno delle relazioni e dell’attualità concreta di chi ha davanti e insieme lo connette alla Storia.

Non è mai simpatica, non è consolatoria. È evasiva come i medici di un tempo, quelli che ti comunicavano una verità senza piegarla alla tua emotività. Detiene un sapere che nessun altro personaggio possiede e proprio per questo si staglia con forza nel quadro generale. E tuttavia, anche lei, forse proprio lei più di altri, viene poi costretta a rientrare nei canoni del tratteggio sommesso, per non tradire l’impostazione afasica della voce narrante. Una voce che resta chiusa, imperturbabile, incapace di aprirsi a un altro gesto linguistico, neppure nel momento di massima elaborazione del trauma. Si intuisce (e si spera) che qualcosa si muoverà dopo, nel rapporto col figlio, su basi diverse. Ma poco importa, perché il romanzo ci obbliga a stare lì, dentro la descrizionedella negatività, senza mai davvero trasfigurarla.

E forse è proprio questo il punto; questo era il suo intento! E sono io a non trovarlo appagante, né arricchente, né tanto meno catartico. Perché non è nemmeno nichilista o introspettivo. 

Non credo che Bajani manchi di ambizione o di consapevolezza — sarebbe ingeneroso pensarlo, soprattutto considerando il suo ruolo nel mondo letterario italiano. Ma sì, a mio avviso, è innegabile che un certo sguardo maschile sul mondo e sui sentimenti, anche quando si propone di denunciare strutture patriarcali, oggi risulti meno efficace, meno fertile, meno capace di restituire la complessità del tema. Soprattutto quando resta ancorato a un punto di vista egoico che, paradossalmente, parte dal medesimo presupposto dello sguardo patriarcale che si vorrebbe mettere in crisi — senza creare una reale contrapposizione dialettica, senza produrre spostamento.

Ecco, forse è proprio questo che mi è mancato: un cortocircuito, un attrito, qualcosa che incrinasse l’ordine del racconto. Invece tutto resta lì, perfettamente coerente con se stesso. Troppo.

Afasia, hai ragione, è sottesa a tutto il racconto e può essere snervante, così come quel tempo dell’attesa infinita che è il racconto della vita del narratore fino alla sua scelta…

Credo che la catarsi che ho vissuto in quella prima lettura sia legata al mio lasciarmi trasportare in una narrazione senza tempo e senza spazio inserendo al suo interno il mio tempo e il mio spazio, creando un legame con quella lingua che in fondo a me feriva e colpiva, laddove a te non dava attrito. Dipende allora più da che dallo scrittore l’esperienza?

Leggo le tue perplessità e le tue critiche e penso che hai ragione, ma che io ho applicato quella sospensione del giudizio che non spesso, ma talvolta riesco ad applicare… un’indulgenza totalmente spontanea e che mi fa perdonare difetti ed egocentrismi autoriali.

Perché?

Contingenze, momento giusto e legami invisibili con dettagli delle storie…immagini abbacinanti che mi colpiscono e mi rimangono, penso a quella scena dell’acqua dello scarico e anche al momento in cui il protagonista scrive, dalla sua cucina, ormai lontano, libero…

Sullo sguardo maschile e la mancanza di complessità dovuta forse ad uno sguardo non in linea con il racconto, sono dell’idea che hai ragione e che tolga potenza di assoluto e di potenziale “classico” all’opera, che vive, per me dentro il momento in cui è stata letta e forse sarà dimenticabile… te lo dirò tra qualche tempo, ma sento che potrebbe essere così e questo sì può essere peccato capitale e non veniale per chi scrive. Ma tant’è i premi hanno spesso il valore di una stagione… a proposito chi ha vinto l’anno scorso? Io non me ricordo neanche più…

Provocazioni a parte, grazie, dello scambio e del senso di forza e libertà che mi ha dato rileggere un’opera alla luce della tua lettura.

Quando lo rifacciamo?

ARTICOLO n. 16 / 2025

UN INCONTRO CON VINCENT LINDON

Ci sono delle occasioni, che capitano e basta, non puoi dire di no anche se hai paura, anche se non ti senti pronta, anche se…

Il mio incontro con Vincent Lindon è una di quelle. Ora mentre scrivo mi rendo conto che non puoi che coglierle, piccole o grandi che siano, non lo sai finché non inizi. 

Quest’occasione inizia da un messaggio, lo ricevo quasi un mese fa, mentre sto rientrando a casa, in un primo pomeriggio grigio, a piedi, in una zona che non conosco bene. 

Lo ricevo e immediatamente mi perdo. Io non ho senso dell’orientamento e non uso Google Maps, quindi chiedo indicazioni a un signore, con i baffi, sembrano due cose inutili ma sia non usare app che i baffi del signore che mi spiega dove devo andare, mentre la mia testa è solo su quel messaggio, sono due cose che fortemente si legano a Vincent Lindon.

Fino a quel momento il mio non essere tecnologica mi era stato solo d’intralcio, ma come si dice, “un giorno questo dolore ti sarà utile”, quel giorno stava per arrivare e quel non essere affatto tecnologica sarebbe stato fondamentale per creare un rapporto che sembrava impossibile con Vincent Lindon. I baffi, se conoscete la filmografia di Lindon, il riferimento è chiaro, quasi un segno, per chi come me nei segni un po’ ci crede.

Ma facciamo un passo indietro, a quel messaggio, che era un invito, “Vuoi incontrare Vincent Lindon in occasione dell’uscita di Noi e loro e parlare con lui? Non un’intervista ma un incontro…”.

Non un’intervista, ma un incontro. Questo era un punto fondamentale e ancora non sapevo quanto. 

Per me era fondamentale, perché non sono una giornalista ma come avrei capito sarebbe stato fondamentale proprio per quell’occasione.

Io ho da tanto tempo un legame con Vincent Lindon, lui ovviamente non lo sa o almeno non lo sapeva ancora. Ho visto tutti i suoi film, non dico tutti per iperbole ma in senso letterale, ho visto anche L’étudiante per intenderci. Il suo controcampo durante il monologo in Crisi mi mette sempre in pace con il mondo e i suoi film con Stephan Brizé sono tra i miei preferiti, Titane mi ha scosso enormemente soprattutto per il finale di Lindon, Fred è il primo film francese che ho visto in vita mia, ma tutte queste cose non mi serviranno. Apparentemente.

Dico di sì, certo che lo incontro, d’istinto, non mi pongo domande, solo un grandissimo sì. Poi come sempre accade quando le cose sono lontane non fanno paura ma poi la data si avvicina e inizio a chiedermi se ho fatto la scelta giusta, se sono all’altezza e se non sarà troppo emozionante. 

La verità è che Vincent Lindon mi fa pensare fortemente a mio padre, non si assomigliano. Mio padre assomigliava ad Alain Delon, però se devo pensare a qualcuno che ha quei tratti scostanti, quel modo di parlare e quella maniera di unire tic ed eleganza, mi viene in mente mio padre, Stefano de Mandato. 

Allontano il pensiero, mi concentro sul nuovo film Noi e loro, lo vedo prima con il link che mi manda l’ufficio stampa. È un film incredibile, inaspettato, c’è una scena che mi colpisce moltissimo, lui beve da solo al bar, ormai disperato, ma di una disperazione sorda e io rivedo mio padre. 

Non è la scena che fa piangere ma è la scena in cui piango io.

Rivedo il film al cinema, la sera dell’anteprima, la sera prima dell’incontro, c’è anche Lindon in sala che lo introduce, lo guardo ma non ascolto, non posso ascoltare altrimenti domattina non vado. 

Sul grande schermo il film mi piace ancora di più, ripiango sulla stessa scena e mi viene una lista di domande, perfette, sulla sceneggiatura (in fondo io sono sceneggiatrice, è il modo migliore per approcciarmi), sul modo di interpretare i personaggi, l’arco di trasformazione, i gesti… sono pronta. 

Vado a dormire, tranquilla, serena, concentrata.

Cappotto blu, rossetto, taccuino in borsa con le domande e mi butto sotto i portici. Fa freddo ma non piove, sono in anticipo ma salgo nella sala del Baglioni dove ci sono già l’ufficio stampa e l’interprete che mi aiuterà con il francese, che mi ricorda il personaggio di un libro di Fred Vargas, mi tranquillizza, mi piace, io il francese lo capisco bene ma non mi sento di parlarlo, mi blocca.

Un caffè, un bicchiere d’acqua, addio rossetto e il taccuino aperto, abbiamo venti minuti che sono tanti e pochi allo stesso tempo, ma Vincent Lindon non è ancora arrivato, mi manca un po’ il fiato ma sono ancora concentrata: non sono una giornalista, sarà una chiacchierata informale, un dialogo.

Mi distraggo un momento a guardare il tavolo e i giornali sopra con la rassegna stampa, sento tossire, mi giro. È lui. Ci diamo la mano. Mi guarda appena, si siede, vede i giornali, li osserva, chiede conferma all’interprete su un titolo.

Si arrabbia, il titolo lo irrita molto, allude all’incanto della recitazione in maniera un po’ smielata, è il virgolettato a irritarlo, lui non l’ha mai detto. Ripete più volte in italiano la parola magia con fastidio. Mi guarda.

«Voi giornalisti fate così… chiedete e poi non rispondiamo noi ma l’idea che avete di noi, la vostra fantasia su di noi… lei per che giornale scrive?», mi trema la voce «io non sono una giornalista… sono un’autrice, una sceneggiatrice, non è un’intervista». Mi sento un po’ ridicola, mi traduco la frase nella testa e appare un Magritte Ceci n’est pas une interviste

Lui sembra sorpreso ma per nulla convinto, come se fosse una trappola, sbuffa come sbuffano i francesi, come sbuffava ogni tanto Stefano de Mandato, “sì, certo, non ce l’ho con lei… cominciamo, on y va!”.

Sono in crisi, non so come uscirne e gli faccio una domanda sui personaggi, una domanda di quelle che mi sono scritta, una domanda banale.

Si vede che non apprezza la domanda ma è molto educato e risponde in maniera distaccata, la domanda era del tipo “Lei come affronta i personaggi, come lavora sulla costruzione del ruolo…”, la risposta è perentoria, “io non lo so, è un lavoro che spiegare non ha senso, succede e basta. Meglio che posso, ma è lavoro, io voglio che sia un buon lavoro, ma parlarne a chi serve?”.

Mi arriva velocissimo un pensiero, cosa sto facendo? Perché gli faccio queste domande? Perché spreco così un incontro? Perché non sfrutto quest’occasione ma la perdo?

Lo guardo, per la prima volta, ha gli occhiali in mano, una camicia bianca, gli occhi uguali e diversi dai suoi personaggi, mi gioco il tutto per tutto, ora o mai più, «ha ragione, è proprio così, se lo spiega non ha senso. Non m’interessa altra risposta. Io vedo lei e il suo corpo nei film, ogni volta diverso eppure uguale. Anche il corpo con una sua storia».

Penso che ho detto una cosa senza senso, ma succede qualcosa nei suoi occhi, che non stanno mai fermi, in quel momento si fermano, mi guarda, fisso, sorride «Brava! È corpo, è l’istinto, è tutto animale, io devo sapere solo il nome, il lavoro, dove abita e cosa mangia il personaggio e poi c’è il corpo e la chimica, l’organico, l’animale. Io ho un corpo specifico, entra sul set e voilà il personaggio prende forma, nessuna psicologia, nessuna. Sta lì e vive». Si indica la pancia, si tocca i capelli, muove le mani.

Penso a lui che balla in quella danza che si trasforma in lotta in Titane capisco perfettamente cosa intende.

Mi perdo nei pensieri, rivedendo il personaggio e la persona davanti a me, capisco le contraddizioni e mi arriva il carisma e l’insicurezza.

«Che cosa scriverà, non un’intervista, allora cosa farà?».

Non so cosa rispondere per non deluderlo e allora penso che l’unica chiave sia la verità. «Una conversazione, un incontro… Non so cosa scriverò ma so che è qualcosa che succederà dopo, che ora c’è l’incontro», lui ripete la parola, non convinto «Incontro?». L’interprete traduce e lui risponde con la parola perfetta, inaspettata, «non un incontro allora è un… rendez vous».

Sorrido, «Oui, un rendez vous». 

Un appuntamento.

«Allora sei tu che devi raccontare, non io, tu… Come ti chiami?».

«Allegra».

Si rilassa, si siede più comodo, prende un foglietto e scrive il mio nome, come per non dimenticarselo, «Allegra, devi fare così, tu devi raccontare questo appuntamento, non come una scrittrice, oppure sì però come se lo raccontassi al tuo migliore amico, dobbiamo fare così. Nessuna narrazione è neutra».

Vincent Lindon ha appena parlato alla prima persona plurale, mi viene in mente Noi e loro, mi viene in mente Pierre, il suo personaggio, che dice al figlio che prima non esisteva altro noi che loro tre, non lo dico a Vincent, a lui dico solo che farò così e chiudo il taccuino. Non ci sono più domande, c’è il rendez vous

E cominciamo a parlare, lui capisce l’italiano, io capisco il francese. L’interprete capisce e quasi non interviene. Mi piace sempre di più.

Lui mi racconta del documentario che è uscito una settimana fa per Arté, in cui puoi non si è nascosto, si è preso il rischio, «con i film, con le donne, con la vita bisogna prendersi il rischio», il rischio di mostrarsi «nei giorni sì e nei giorni no, quando vinci un premio e quando non vuoi alzarti dal letto», «non mi sono nascosto», «e guarda» – mi mostra il suo telefono – «ho ricevuto messaggi da colleghi che mi dicevano che sono pazzo a raccontare come sono e di giovani che mi dicevano che li salvava vedere che sono così».

«Io non ho i social, a me piace stare con la gente, al bar, fare la spesa, chiedere indicazioni per strada…».

Ecco le indicazioni, Google Maps, il nostro legame. Ci siamo, siamo al rendez vous

«Je m’en foute dei social… Io non voglio quello, lo odio quel modo di essere, no di non essere». Ride, rido anch’io. 

Penso che dice una parolaccia con eleganza e gli dico senza pensarci che mi fa pensare a mio padre, che è morto poco più di un anno fa, dico proprio così morto, non mancato, fuori luogo sicuramente, ma in un rendez vous tutto è concesso e per un attimo mi sembra commosso, in qualche modo sollevato che io dica cose “fuori luogo”.

Ci interrompono, è finito il tempo, lui fa un cenno di aspettare e di rimanere seduta, siamo ancora in ballo, il rendez vousnon è finito, «se non possiamo essere liberi stiamo vivendo la vita sbagliata… Io lavoro senza pormi questioni psicologiche, tanti attori anche bravi lavorano sulla psicologia dei personaggi, io no. Zero. Conosci Bjorg?».

Annuisco stupita. «Se gli chiede come fa lui a fare quello che fa ti risponde che lo fa, ma che lo fa diverso da Mc Enroe, uguale per Maradona e Platini, o Belmondo e Volontè, Gassmann e Mastroianni, Beatles e Rolling Stone… È così… Tutti diversi ma tutto giusto, se funziona». Ride.

Rido anch’io, penso al modo in cui lo fa lui e mi viene una domanda, rischiosa, ma mi butto.

«E quando un film è finito? È finito?».

«Oui… No… Non lo so, a volte sono molto triste, a volte sono molto felice, quando finisce, a volte mi dimentico un personaggio e a volte invece mi resta o io resto a lui. Se ci penso impazzisco, non ci penso mai. Le cose succedono, passano, sono occasioni, non vanno sprecate ma non vanno rimpiante. Tu comprend? Capisci?».

Io capisco meglio di quello che lui può immaginare, mi interrompe, «c’è una cosa che è importante, una frase che ti devo dire, la devi scrivere, non per gli altri, per te».

So che il tempo è finito ma lui non si ferma, «devo dirti una cosa che per me è ultra importante, è una frase di Camus, del discorso al Nobel…». Prende il telefono e mette il viva voce, si sente il suono del telefono che squilla, non risponde nessuno, sbuffa, mi guarda. «È sempre così, se è urgente, non rispondono, c’est la regle, è la regola». 

Riprova sempre in viva voce, risponde una voce assonnata, «scusami, devi farmi un favore, vai a prendere il libro, pagina 25 e capolinea 2…». Dall’altra parte, gli chiedono di aspettare, sono istanti lunghissimi, lui è in ascolto, sussurra guardandomi, «questa è troppo importante segnala…». Dall’altro lato del telefono la voce (scoprirò mentre parla che è Stefan Crepon, il coprotagonista di Noi e loro, uno dei due figli, quello “buono”) legge la frase con una grande verità e stanchezza nella voce, Vincent lo saluta e lo ringrazia con trasporto.

«Voilà… È questo, quella frase, sono io, siamo noi».

Poi lui mi chiede se è abbastanza, se sono contenta, mi esce la più assurda e inopportuna delle frasi, «ci possiamo abbracciare?».

Con grande forza lui mi abbraccia, ripenso all’abbraccio finale di Noi e loro, persona e personaggio, le rendez vous, tutto finisce ma in fondo resta.

Non so come salutarlo e mi esce quel francese che mi blocca, una frase alla Stefano De Mandato, rischiosa, «Bonne chance pour la vie».

Fa una pausa, sorride, gli piace, «Oui, anche a te, bonne chance pour la vie, à nous, a noi. Ciao!», con quel misto di francese e italiano. E quel noi

Mi allontano, scendo le scale e incontro Stefan Crepon, mi sorride e gli faccio i complimenti, immagino che lui non sappia che l’ho sentito in viva voce leggere Camus e sorrido, ha un bello sguardo, poi mi giro e Vincent è sulle scale, mi fa un sorriso e un cenno di saluto. Il rendez vous è finito. 

Sono di nuovo sotto i portici, è passata poco più di un’ora, strana, penso a quella scena del film che mi aveva fatto piangere e stavolta sorrido, ora piove ma je m’en foute.

«E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri, si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte ed essere diverso dagli altri solo confessando la sua somiglianza con tutti», Albert Camus.