ARTICOLO n. 53 / 2025
“THE END”: UNA VITA NEL BUNKER
il cinema di Joshua oppenheimer
In collaborazione con I Wonder pubblichiamo un testo di Alice Valeria Oliveri su The End di Joshua Oppenheimer dal 3 luglio al cinema e sui suoi documentari The Act of Killing e The Look of Silence presenti sulla piattaforma I Wonderfull
Non è passato molto tempo da quando Hadja Lahbib, commissaria all’Uguaglianza e alla Gestione delle crisi dell’Unione Europea, ci mostrava in un video con tono ironico alla What’s in my bag ma in versione Survival edition di cosa si componesse il kit di sopravvivenza consigliato da Bruxelles per la guerra e le crisi. Una power bank, dei contanti, fiammiferi, del cibo in scatola: se non fosse che siamo nel mezzo di due guerre atroci e a un passo dall’Occidente, governati da solide figure politiche che indossano cappellini promozionali, nel pieno effetto del riscaldamento globale e a qualche anno di distanza da una pandemia, avremmo forse potuto sintonizzarci meglio con il piglio scanzonato di Lahbib, pensando quel kit più come la preparazione del nostro zainetto per L’Isola dei Famosi che come emanazione simpatica ma anche pratica di un possibile conflitto nucleare.
Oltre agli errori di comunicazione più evidenti di quel video, c’è qualcosa nel sottofondo delle parole pronunciate dalla commissaria UE che risuona in modo insopportabile. È la sensazione di essere presi in giro due volte: la prima perché ciò che offre non è una soluzione ma una microscopica e ridicola toppa, la seconda perché è chiaro che, nel caso di un’emergenza di quel tipo, non sarà il nostro coltellino svizzero a salvarci dalla devastazione. È il teorema del Titanic, le scialuppe non bastano per tutti e c’è chi ha comprato un biglietto in prima classe, gli altri possono indossare il salvagente e sperare che con il cambiamento climatico l’acqua dell’oceano sia un po’ meno fredda di quella in cui affonda Leonardo Di Caprio incartapecorito. Ed è il tema centrale di The End, il musical post-apocalittico, se così possiamo definirlo nella sua trama fatta di un futuro che solletica il presente, di Joshua Oppenheimer, regista già noto per i suoi documentari, ora alle prese con un genere che si presta in modo peculiare sia all’ambientazione che ai personaggi del suo film.
La mescolanza di forme narrative cinematografiche, del resto, non è una pratica estranea a Oppenheimer: in The Act of Killing, documentario con cui ha esordito nel 2012, vediamo gli autori del colpo di Stato in Indonesia del 1965, sfociato in una delle più gravi epurazioni del Novecento, che rimettono in scena i loro atti criminali. Ciò che la storia postuma ha definito tra le più violente e disumane cacce ai comunisti di tutti i tempi diventa una messa in scena tragicamente surreale poiché ricreata dai suoi protagonisti, vecchi paramilitari che oggi vestono i panni di borghesi benestanti e che si prestano a questo gioco di finzione basato sulla realtà dei loro stessi omicidi. Anche in The look of silence, del 2014, Oppenheimer racconta il massacro in Indonesia, ma da un punto di vista diverso, ossia la storia di Adi, un uomo che ha perso suo fratello per mano di alcuni membri del Komando Aksi nell’eccidio del Silk River e che incontra direttamente i responsabili di questo omicidio per ricostruire faccia a faccia la verità della storia, non solo familiare ma anche del suo paese e di un genocidio di cui purtroppo non si parla così tanto.
Con The End Oppenheimer ci porta da tutt’altra parte, anche se lo stile provocatorio dei suoi documentari non sparisce, si trasforma. Diventa infatti il presupposto stesso del genere musical a fare da miccia per la provocazione: se per antonomasia le canzoni nei film fungono da strumento consolatorio, addolciscono le immagini, avvolgono il racconto con una patina onirica che fa da filtro alla narrazione, nel caso di The End la funzione è opposta. La metafora della musica come rifugio dalla realtà e strumento di evasione diventa letteralmente un bunker dentro il quale una famiglia di ricchissimi speculatori si nasconde dopo un’apocalisse climatica creata dai loro stessi affari. Il mondo attorno a loro è diventato un deserto di sale e tenebre, ma dentro quel nascondiglio ricoperto da opere d’arte preziosissime, un padre, una madre, un figlio e tre persone selezionate solo in funzione del loro compito strumentale all’interno dell’economia domestica – maggiordomo, medico, amica subalterna ai bisogni della padrona – simulano un’esistenza normale.
Siamo circondati da racconti in chiave eat the rich, dalla santificazione internettiana di Luigi Mangione agli asteroidi di Don’t Look Up, sublimiamo le ingiustizie sociali e i paradossi che ci passano davanti agli occhi, tra un Bezos che invade Venezia per il suo matrimonio e Katy Perry che paga un milione di dollari per stare dieci minuti nello spazio, con storie in cui alla fine, a pagare, sono i potenti, mentre nella realtà tutto resta identico. La chiave inedita di Oppenheimer, in questo senso, sta proprio nell’assenza di rivincita che vorremmo vedere in un film come The End: la critica al presente, con la distruzione del pianeta per mano di pochi senza scrupoli, è chiara, ma lo è altrettanto anche l’impossibilità di risoluzione di questo stato per mano di una singola persona, che in questo caso è la giovane donna che riesce a entrare nel rifugio dall’esterno. Tutti loro, nessuno escluso, covano il ricordo di un momento in cui hanno fatto del mors tua vita mea l’unica strategia di sopravvivenza, e tutti loro, all’interno di quel sistema isolato che hanno creato per simulare la realtà, sono consapevoli della mancanza di senso che sta alla base di una sopravvivenza a scapito del resto del mondo. A cosa serve conservare le opere dei grandi pittori impressionisti e appenderle sulle pareti della propria casa se nessuno, eccetto chi li possiede, può vederli? A cosa serve l’arte stessa, nella sua bellezza, se rimane nascosta sotto terra mentre il mondo fuori brucia?
A queste domande rispondono le canzoni. Non canzoni allegre né di rottura rispetto al tono drammatico e volutamente asettico del film, ma malinconiche e poco coinvolgenti, rassegnate, traduzioni musicali dei pensieri più inconfessabili dei protagonisti, voci della coscienza che rimbalzano sulle pareti della prigione dentro cui devono vivere se vogliono sopravvivere. Tilda Swinton, che interpreta la madre della famiglia, ex ballerina del Bolshoi, collezionista d’arte scrupolosa e apprensiva, è forse il personaggio a cui riesce meglio l’operazione di autocoscienza musicata, in un dialogo immaginario con la sua, di madre, che ha lasciato indietro nel mondo distrutto, senza offrirle la possibilità di salvezza che invece hanno avuto lei e suo marito e che ricorda con i pensieri che fanno tutte le persone distanti dalle loro origini. Avrei potuto passare più tempo con te? Ti ricordi quando facevamo questa cosa insieme? Swinton parla da sola, o meglio, canta in solitudine aggiungendo solamente altra inquietudine all’atmosfera già rarefatta della sua quotidianità inutile.
Nella puntata Once more with feeling della serie televisiva cult Buffy – l’Ammazzavampiri tutti i protagonisti cominciano a cantare senza sapere perché. Lo scopriamo solo a un certo punto dell’episodio, quando chi canta e balla senza sosta comincia a morire per autocombustione: la felicità spensierata del musical si trasforma in terrore, non è per gioia incontenibile e diffusa che la città è diventata una Broadway a cielo aperto ma per mano di un demone che vuole eliminare la razza umana a colpi di tip tap e armonizzazioni a cappella. In un modo simile anche se con risultato diverso, l’espediente contrastante tra forma e contenuto di The End, la sicurezza che genera la musica, ciò che associamo alla voce di nostra madre che ci fa addormentare o alla felicità adolescenziale dei nostri gusti che si formano, è l’involucro asfissiante dentro cui sopravvivono persone sole, senza alcuna concezione della collettività e del bene comune. La vita prosegue dentro al bunker, nascono bambini, si scrivono libri, si preservano i quadri, ma sono semi piantati nel sale, lo stesso che li avvolge e li protegge. È un kit d’emergenza per i disastri nucleari presentato come un simpatico compagno di viaggio, una canzoncina con cui alleggerire il senso di oppressione, mentre fuori, la realtà, è tutto tranne che un «canta che ti passa».
Le proiezioni alla presenza del regista:
- Giovedì 3 luglio – ROMA – cinema Barberini – 20:00
The End INTRODUZIONE+Q&A - Venerdì 4 luglio – MILANO – cinema Beltrade – 20:40
The End INTRODUZIONE+Q&A - Sabato 5 luglio – BOLOGNA – CINEMA RITROVATO omaggia Oppenheimer
The Act of Killing – Cinema Modernissimo – 18:00
The Look of Silence – Piazza Maggiore – 21:45 - Domenica 6 luglio – MILANO – Anteo Palazzo del Cinema – 10:00
The End – Lezione di Cinema con Simone Soranna al termine