ARTICOLO n. 38 / 2025

NÉ AL FUOCO NÉ AL BUIO NÉ AL GELO

elettricità incarnata

Qualcosa di miracoloso brucia in lei,
e i contorni del suo viso brillano davanti ai miei.
Lei sola mi parla,
quando gli altri temono di avvicinarsi.
Quando l’ultimo amico distoglie lo sguardo
da me nella tomba, si stende al mio fianco 
e canta come il primo temporale,
come se tutti i fiori cominciassero a parlare.
(Anna Achmatova – 
Musica)

Scrivere può essere musica? Forse la scrittura è una musica che si è liberata di sé stessa, ma che pure mantiene i suoi elementi fondamentali: sillabe e parole compongono linearmente la melodia di note fantasma, sintassi e costruzione dei periodi evocano il ritmo che pulsa nelle tempie e l’apposizione delle righe l’una sotto l’altra è l’armonizzazione, la somma che supera le parti. Musica e scrittura. Entrambe sono sia ambiguità elevata a sistema che calcolo elevato a mistero. Entrambe sono il diritto di creare relazioni tra significati lontanissimi, di mescolare tutte le combinazioni tonali che siano mai esistite, di accedere al canone delle cose sommerse e proibite, di ricordare ciò che non è ancora avvenuto. Entrambe sono elettricità incarnata, fuochi che rendono indisgiungibili forma e contenuto. Ciò che si canta è come lo si canta. Ciò che si scrive è come lo si scrive. Con questa sfida hanno deciso di confrontarsi le voci di questo ciclo, perché come in una progressione armonica un accordo ne chiama sempre un secondo ed un terzo e così è anche per le storie, che si compiono e risuonano davvero solo in chi ascolta e in chi legge. Niente è vietato in questi racconti perché come la musica, la letteratura non ha alcun messaggio se non sé stessa, alcun genere se non la verità e in essa arde sempre qualcosa di miracoloso. (Dario Valentini)

«Né al fuoco» Ballerini allungò la mano. 
«Né al buio» Frison appoggiò sopra la sua. 
«Né al gelo» Rampino ancora sopra. 
«Facciamo tremare l’universo sul suo stelo!» urlò Boscolo e tutti alzarono le braccia. 

Si strinsero a mischia, testa testa, a darsi pacche durissime sulla schiena e poi presero a saltare, battersi il petto, smandrupparsi, ululare, sniffarsi e rasparsi l’uno sull’altro. Più che a ritmo con l’intro andavano su e giù con il mormorio di risacca dei duemila e passa fuori manco quello fosse il concerto e questo il pogo. La somma di quelle parole a mezzo e quei fiati caldi li percorreva comunque più forte degli ottantamila watt delle casse. I tecnici li guardavano un po’ a presa di culo, era gente seria, da anni sulla strada, che dietro le quinte doveva averne viste di tutte, patti di sangue, raglie, rum sparato endovena, gente che si pitturava la faccia, che meditava urlando, che evocava il demonio, che provava a scoparsi un’anguilla o nemmeno si salutava prima di suonare. Forse nemmeno li perculavano. Inteneriti, indifferenti, presi da altro. Cavi, prese, pulsanti eccetera.

Ballerini, Frison e Rampino entrarono sul palco, sagome di buio nel buio e nel mormorio ora scoperto. «Certo che si chiude con il botto proprio, io l’Alcatraz neanche con il cannocchiale». Fogher quel pomeriggio se l’era girato con le mani sotto le ascelle manco fosse in un museo. «È un onore» al chitarrista dei Sancta tremava un po’ la voce al soundcheck «Un onore davvero aprire per voi».  Rispetto ai tour di prima gli sembrava d’averlo fatto in un continente diverso che l’altro lo rimpiccioliva, anche loro avevano suonato in maniera diversa e si erano ritrovati più esposti sia al bello che al brutto. A Stoccolma si erano buttati sul pubblico con strumenti e tutto, senza smettere di suonare e la gente li aveva tenuti su in verticale. A Manchester il bus aveva preso fuoco ma i pompieri erano arrivati subito salvando strumenti, valigie e persino sigarette, avevano giusto firmato i moduli dell’assicurazione, cambiato bus e via. Ora gli pareva di rientrare da espugnatori intergalattici, vampiri che del sole se ne fottevano, giganti educatamente curvi a conversare con le nuvole più in basso, si sentivano esaltati, stanchi, arrabbiati di essere stanchi, confusi, fin troppo sicuri, in realtà non sapevano bene come si sentivano. 

Nell’arena c’era odore di cemento, ascelle sudate e schiuma di birra. Le luci erano ancora tutte spente e dalle casse usciva l’intro del loro set a un volume così alto da stordire e distrarre, ma qualcuno dalla prima fila li vide e prese a strillare. La base si fermò per un secondo e subito dopo entrò pure Boscolo. La gente smattò. Quattromila mani si alzarono. Aperte, chiuse a pugno o a fare le corna. Le luci partirono piane e da sotto. Boscolo abbracciò con lo sguardo la sala in tumulto annuendo appena al macello intorno. Spighe di carne battute dal vento di suono. Aveva pensato parecchio a cosa urlare per aprire le danze da quando avevano fatto breccia “Bentornati a casa”, “Voglio vedervi volare”, “Nessuno uscirà vivo di qui”, “Il vostro vero amore è qui da qualche parte quindi datevi da fare” e infine aveva scelto quello che gli sembrava di gran lunga più potente: niente di niente. Neppure li guardava in faccia. Pareva cantasse rivolto a un pubblico invisibile ma sempre più numeroso. Indossava un chiodo rosso e niente sotto, capelli tenuti da una fascetta, pantaloni a sigaretta e un filo di matita nera sotto gli occhi. Finito lo spazio su torso e braccia s’era fatto tatuare una volpe a nove code a tutta schiena.

«Basta pomparti» lo perculava Nadia «Se lo sono mangiate il mio ragazzo ‘ste proteine, ma poi devi proprio prenderle al gusto piedi? Cadavere e vaniglia l’avevano finito?» Boscolo fece uno scatto col mento verso la gente e strinse il microfono. Piegò appena le ginocchia e gli altri attaccarono. Un boato investì la sala che parve accartocciarsi su sé stessa, a bordo dell’onda rossa delle luci che si rovesciavano a spazzare la sala. C’erano ragazzetti rachitici a petto nudo eragazzette con magliette di band tre taglie più grandi usate come vestiti, omoni barbuti, tipe sui trenta. Volti come mille gocce sul parabrezza. Ballerini invece li guardava mentre suonava, come avesse un altro sé in parallelo con tutto il tempo di soffermarsi faccia faccia. Alcuni avevano gli occhi fissi su di loro, altri più su, come stessero guardando direttamente la musica che filtrava attraverso le loro bocche e dita, come conoscessero le canzoni meglio di chi le aveva scritte, bastardi baciati da stelle che non avevano vegliato neppure una notte, con la sicumera dei genitori che si vedono restituire i figli dopo il parto, le sentivano così, compiute, non sovrapposte a quello che avrebbero potuto o dovuto essere, ogni struttura iniziale, variazione abortita o mix grezzo, ma per quello che erano e basta. Lavato via il sangue, reciso il cordone, posato il pianto. Ballerini li invidiava quei maledetti, liberi, innocenti, vittoriosi per battaglie non combattute non per questo ipocriti, anzi. E loro lassù grandi, prigionieri, contrappesi delle proprie note, incapaci di sciogliere il nodo e allo stesso tempo di lasciarlo. Legati per sempre al suo fuoco e alle sue regole. Ballerini raschiò il plettro sulle corde, scivolando dal ponte al collo, caricando il riff. Lingua universale, ponte tra i popoli, porta per passato e futuro, la musica gli sembrava casa di tutti solo per chi non ci abitava davvero. Come Dio senza averlo pregato o il primo amore. Magia liberata dalla menzogna di essere verità.

Boscolo fece un balzo in avanti così spericolato che quelli delle prime file misero le braccia su come a difendersi, si fermò giusto sul bordo, inarcando la schiena come a tirar su tutta l’aria del posto «Siamo stelle nere» ululò «Il cielo è troppo piccolo per poterci contenere». La gente iniziò a saltare su e giù senza smettere di gridare. Ballerini si tuffò in una sequenza di accordi turbolenti sulla nuova Jazzmaster modificata “Ago di fuoco”, corpo in ontano, curve dolci, verniciatura sunburst, pickup articolati e brillanti, meccaniche autobloccanti, tremolo panorama che aumentava a dismisura il raggio del vibrato, da rapidi tuffi a profonde immersioni. Schiacciò a raffica il killswitch spezzando il fraseggio. La chioma bionda ondeggiava come percorsa da mani invisibili «C’hai i capelli da donna» gli diceva Luna e glieli mordicchiava a ciuffi «E pure i capezzoli».

Puttanatine così erano le cose che gli mancavano di più. Il torso magro e fiero fasciato in una camicia bianca senza colletto a maniche tirate su, le gambe lunghe e sciolte nel denim nero dei calzoni. Guardò Boscolo e gli sparò un sorrisetto missile, appoggiò un piede sulla cassa spia, poi si diede uno slancio all’indietro e fece una giravolta. Si abbassò piegando le ginocchia e venne su manco pattinasse sul lago di fuoco rosso dei faretti. Frison gli copriva le spalle con il Jaguar Bass, anche questo roba nuova, corpo in legno di pino, verniciatura rubino, tastiera in acero, pick-up passivi ma che suonavano come nocche sulla bocca, ponte che non perdeva mai l’intonazione. Suonava così denso che pareva tirarli su quando stavano per cadere dopo un’acrobazia troppo audace, sia sullo spartito che sul palco. Teneva le gambe divaricate e lo strumento piantato addosso, come trainasse avanti la canzone con le spalle.Maglietta dei Mistral, bandina scrausa che voleva spingere, pantaloni ciucciati, capelli lunghissimi che schizzavano da tutte le parti, un po’ molliccio ma strafottente.

«Comunque hai il culo più bello di tutti e quattro» gli ripeteva Bianca. Aveva capito che cavalcarla era l’unico modo di uscirne e allora roteava su sé stesso fino a cadere e si scuoteva come un epilettico quasi dovesse dare l’esempio o il permesso alla gente di perdere la testa. A volte agganciava gli occhi con qualcuno nelle prime file sorridendo come un mongoloide e lo indicava come a dire: sì tu proprio tu ora ci divertiamo, e pareva suonasse solo per lui. «E se l’unico amore che dura è quello che viene spezzato nel giusto momento, tu tienimi le mani fino alla fine del tempo» Boscolo scandiva le sillabe come avesse una sciabola d’aria in bocca. «Fino a quando non saremo scheletri d’argento» urlò di risposta Frison. «Ossa delle mie ossa, luce della mia vita, tienimi le mani finché non è finita». Il vantaggio di suonare con la base in cuffia era che non sbagliavi mai. A patto di rimanere costantemente sul pezzo. Frison non perdeva occasione di ripetere che quella perfezione a metronomo era un po’ fascia e che invece erano proprio le sbandate a renderli efficaci. E allora teneva un auricolare fissato nel padiglione col nastro adesivo e l’altro sempre fuori e così gli sembrava di uscire un po’ dalla macchina. Rampino macinava sulla Saturn scarlatta, nuova pure quella, i gusci ibridi in noce e betulla facevano partire certi botti così pieni da lasciare svuotati. E le pelli spesse e tese sparavano risonanze talmente affilate, croccanti e nitide che parevano flash di luce oltre che di suono.

Ballerini lo sbirciava tra un riff e l’altro. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, i dreadlocks lunghi raccolti, un paio di pantaloncini minimi, il petto nudo, robusto, lucido di sudore come anche le cosce e le gambe, quasi glabre. I suoi occhi luminosi specchi neri, l’opposto di dicembre, macchine del tempo. La schiena torta ad un angolo innaturale, le braccia che parevano uscire da una nube di oscurità elettronica piuttosto che dal tronco. Picchiava così forte da mandare schegge tutto intorno, manco dovesse proprio buttarla fuori quella roba o sarebbe imploso. A volte inseriva delle note fantasma dove non avrebbero potuto starci, come il battito del cuore di un bambino mai nato o il luccichio di una stella di giorno. Ora aveva parecchi piatti, i due più esterni, li avevano fatti montare al contrario e riempire di nafta liquida. Ballerini ci lanciò una cicca dentro ed ecco la fiammata con Rampino che la batteva ammansiva lavorava in un disco rosso oro. Le transenne sussultarono per le ondate di gente aggrappata a tirarsi indietro e buttarsi avanti, il vermiglio delle luci si intrecciava con le punte accese e il fumo delle cicche, ormai del divieto se ne sbattevano. Mai suonato così bene, Frison si sorprese ad andare avanti liscio pure lui come si guardasse farlo, senza inseguire per una volta, in una riserva di tempo che lasciava godersi come il rimbombo delle note si accompagnava al passaggio delle luci che ruotavano e lampeggiavano in sincrono alla cassa, bisognava fare una statua al fonico e agli altri tecnici. Le macchine del fumo soffiavano una mistura d’acqua e glicerina e trasformavano le loro silhouettes in quelle di eroi mostri e dei, per chi lì davanti ci scuoteva bevute e spremeva sudore dentro. Boscolo spazzò l’aria come agitasse una mazza invisibile «Tagliami pure a metà. Sarò il vento che ti prenderà»Era incendiario, in bilico tra precisione e presenza, copriva quasi tre ottave di estensione, dal Do basso al Do di petto e oltre in una specie di falsetto urlato, riusciva a tenere fino all’ultimo le note più difficili e gesticolava manco fosse un direttore d’orchestra con un tumore al cervello: serrava i pugni, sparava pistolate all’aria, giocava con l’asta, sputava, saltava sforbiciando con le gambe, si raggomitolava giù colpendo il palco a ritmo, poi scattava in piedi e si muoveva avanti e indietro manco volesse suonare tutti gli strumenti. Aveva superato le mosse più stereotipate dei frontman hardcore aprendosi a serpentini ondeggiamenti da indie rocker, sorrisetti da cantautore ruffiano e addirittura certe ieratiche pose shoegaze che lo facevano spiccare come un bassorilievo dal muro di suono. Era una parte potenza e nove controllo e quella sua voce acuta e graffiante ora sembrava uscirgli senza sforzo e quando ordinava alla gente di smattare, quelli obbedivano. Ballerini al contrario pareva improvvisare a raffica, si muoveva con passi di danza segreti e perturbanti, scivolando per il palco in punta di piedi, cambiando sequenza di continuo e balzando su e giù dalle casse. Si avvicinò al bordo palco e poi prese a suonare con una mano sola martellando sulle corde, con l’altra tirò fuori una sigaretta, se la infilò tra le labbra e poi si buttò di schiena sulla foresta di mani tesa e ghermirlo. Bianche sbocciarono tre dita, una tizia gli accese la cicca, precisa quasi non aspettasse altro, angelica e puntuale come la morte. Magari ci scovasse così, pensò Ballerini e prese a battere due frasi separate in tapping. Pure Boscolo si lanciò sotto, attraversò la folla offrendo il microfono a destra e a sinistra, mentre i tecnici bestemmiavano e gli davano cavo, poi s’arrampicò sul bancone del bar e riprese da lassù in alto. Lanciò uno sguardo a Ballerini, quell’altro gli fece un sorrisetto e precipitò in un’assoluta raffica di note, poi in una triade sconvolgente, poi in una rapida sequenza di armonici taglienti come denti di fantasmi.

La gente non sapeva dove guardare, si girava un secondo verso Boscolo e l’altro verso Ballerini e così la fotografa del club che li mirava e sparava dalle quinte. «I nostri polsi sempre fuori fase, non lasciarmi andare, quando ti dico: mi fai male» Boscolo cantò il ritornello un paio di semitoni più acuto e allora Ballerini prese a variare il riff principale, non chiudeva la progressione ma la portava sempre più su, senza risolverla. Una battuta, due battute, la gente ululava e si spintonava come a dire: cosa? Ho sentito bene? Frison e Rampino lo seguivano e pure Boscolo a sentirla così sussultò. Quando stracazzo l’avevano provata senza di lui? Per qualche secondo ascoltò e basta quelle note diverse, poi scosse appena alla testa con una smorfia, allungò le braccia come a raccogliere un caldo invisibile dall’aria e se lo premette al petto, accennò un inchino, mentre gli altri tre in risposta gli facevano il dito medio. Poi Ballerini sparò il riff originale, la gente smattò e se lo caricò ancora sulle spalle e rispiaggiò sul palco. Pure Boscolo saltò a cavalcioni di un mezzo ciclope e si fece portar su. Si rimisero in formazione e Ballerini trascinò la sala sull’onda lenta di un arpeggio invertito, dilatato e iper riverberato, mentre le luci sparaflesciavano e tutti parevano muoversi piano, come sospesi, con gli occhi semichiusi e le labbra appena torte. «Sono da solo anche quando sei con me, sono con te anche quando sono da solo» Boscolo, il più solenne e lento di tutti, alzò una mano come a cercare di raggiungere qualcosa che forse vedeva solo lui. Avevano imparato, in un modo o nell’altro, dicendoselo o meno, che portarsi passato o futuro sul palco significava morte certa. Quello che era o sarebbe successo fuori non importava. Amarezze e malinconie andavano trasfuse nel processo alchemico che ormai conoscevano bene e non mancava comunque di stupirli. Lì sotto chi limonava, chi litigava, chi scopava nei cessi, chi pigliava una gomitata o un calcio, chi perdeva gli occhiali nel pogo con qualcun’altro che glieli pigliava su al volo e gli faceva cenno che era tutto ok, chi scalava le spalle di un altro per vedere meglio e poi cadeva rompendosi l’orbita, chi si rannicchiava in fondo a piangere con la faccia nelle ginocchia, chi comprava un disco o una maglietta, chi andava in palla e mandava un messaggio all’ex, chi beveva troppo, chi registrava tutto, chi postava foto e video, chi si vergognava di andarci eppure non poteva farne a meno, chi non ci andava e si mangiava le mani, chi ci andava da solo e si faceva degli amici nuovi. Chi neppure si muoveva, fermo per un’ora per poi sulla strada del ritorno continuare ad ascoltarli in cuffia, al buio. «Parla coi morti insieme a me, il telescopio è un ponte per te, ho scavato una trincea ma non ho nessuna voglia di combattere» La gente rispose il verso dopo «Nessun amore finisce dove è iniziato, ed è così che mi hai salvato» Chi per scordarsi di qualcuno, chi per ricordarselo, chi per sentirsi parte di qualcosa più grande, chi per scoprirsi unico, chi solo per fare un po’ di sacrosanto bordello. 

A casa Nadia macinava esami tipo schiacciasassi, a volte cedeva alle insistenze degli amici dell’università e andava alle feste dove fissa si rompeva il cazzo e riprometteva di stare a casa a leggere Cechov o Puskin. Bianca passava le prime selezioni per l’orchestra giovanile e mostrava a tutti i video dei loro concerti dicendo «Questo è il mio ragazzo capito?». I genitori di Frison calcolavano gli anni alla pensione. Il babbo di Boscolo ritirava un premio minore. La mamma di Ballerini scandagliava i social per le foto del figlio, le stampava e metteva in un album. I nonni di Rampino andavano a messa e pregavano per il nipote che vedevano sempre meno e che pure, strano a dirsi, gli pareva star benone, o almeno bene, ed era già ben più di quello che s’aspettavano, come se le canzoni non potessero mai realmente essere per gente come loro ma sempre e comunque per qualcun’altro. 

***

Prima dello spettacolo, ognuno aveva un suo rituale. Frison esplorava ogni anfratto del locale bevendo la prima birra, poi, dopo il soundcheck, se ne faceva una seconda e andava a rompere le palle al fonico perché il mix fosse ben bilanciato o tenesse conto del riverbero della sala o qualche altra cazzata da smanettone e finiva per beccarsi una pioggia di insulti o restare bell’e ignorato. Infine, quando il posto era pieno, buttava giù la terza e la quarta e si sciroppava tutte le band che venivano prima, non dalle quinte come gli altri, ma in fondo, mischiato al pubblico. Gli parevano sempre troppi, più di una volta aveva sboccato per la tensione. Ballerini centellinava un gin tonic a dosi omeopatiche, fumava a catena e trasponeva qualche giro nuovo da chitarra a synth e si sorprendeva di quanto suonassero fighi. Non aveva il coraggio di dirsi pure meglio. Scriveva un messaggio d’ordinanza a sua mamma e poi spegneva subito per non vedere la risposta che, sempre solare, accettante e al rialzo, gli avrebbe comunque fatto girare il cazzo. Rampino beveva tutto quello che gli capitava sotto mano e poi si piazzava nel parcheggino artisti a suonare sul pad da allenamento dei ritmi che nelle loro canzoni non c’erano. Rigorosamente altro. Nessuno sapeva da dove li tirasse fuori, pareva sfogasse lì quello che non poteva suonare altrimenti. Boscolo si faceva una mini sega, senza chiuderla, chattando con qualche tipa con cui aveva già mezzo accordo per il dopo, un whiskey corretto creatina e sceglieva gli abiti di scena con la connivenza di quelli dell’etichetta. Voleva preparare pure per gli altri i vestiti, che pur rimanendo su tonalità scure erano diventati più elaborati ed eleganti della combinazione nero su nero dei primi tempi. Adesso c’erano camicie, giubbetti di jeans, giacche di pelle, guantini, foulard, cinture, borchie, cappelli e addirittura certi blazer leggeri da far svolazzare durante le acrobazie. L’avevano persino beccato a stirarglieli, lui che non aveva mai stirato niente in vita sua. Frison all’inizio aveva opposto resistenza dichiarando che avrebbe smesso di vestirsi di nero solo quando avrebbero inventato un colore più scuro «Guarda che ti taglio i capelli nel sonno se continui a rompere» ma alla fine si era lasciato tirare dentro. Non c’era stato modo. Glielo doveva. Se a lui, alla band o al pubblico non l’aveva ancora capito bene.

Negli ultimi mesi il disco era davvero esploso, dopo un’uscita un po’ in sordina, era diventato virale, forse per qualche colpo di culo con l’algoritmo, il passaparola o chissà cosa, tramutandosi in un una valanga difficile da smontare. Il problema di essere l’avanguardia era aspettare che il resto del mondo si mettesse al passo, e di solito ci volevano anni, ma se invece di essere talmente avanti da doppiare gli altri, si era appena oltre la curva poteva volerci molto meno, quello era il trucco, oltre a un culo smodato o almeno così gliel’aveva messa giù Fogher, che palese non se lo spiegava manco lui. Oltre agli apripista locali, i Sancta, l’etichetta aveva ingaggiato in apertura altri due gruppi di scuderia. I La Nuit, giovanissimi e ancora poco conosciuti ma che secondo Frison lo sarebbero rimasti ancora poco, e gli Sturmfrei già grossetti e sulla strada per diventare più grossi ancora. Facevano tutti parte della nuova wave del rock europeo. “new noise” li chiamava la critica. E come ogni definizione li seppelliva vivi. Loro cercavano di sfuggirle dichiarandosi a ogni intervista una cosa diversa e deragliata: “una band hardcore moderna”, “un complesso screamo cosmico”, “una piccola orchestra apocalittica”, “un duo jazz”, “un gruppo di auto mutuo aiuto” o “il corpo diplomatico della libera repubblica di Falconia”. 

«Se volete che venga anche io stasera mi dovete portare in braccio» Rampino, tutto sudato dopo aver suonato si buttò a faccia in giù sul divanetto del bus. Frison gli fece passare sotto il naso un cordon bleu scaldato al microonde, sua specialità dopo i set, e Rampino lo addentò a occhi chiusi «Minchia fre sei disumano». Boscolo attaccò ad asciugarlo col phon «Sai di caimano» Ballerini gli montò sopra a cavalcioni e prese a schiacciargli un brufolo sulla schiena mentre l’altro provava a disarcionarlo e rideva «Va bene! Va bene! Vengo» saltò su e gridò «Carica duecento!».

Dopo i concerti, sderenati ma soddisfatti di essersi dati in pasto a labbra, cuori e mani, si lanciavano sempre nell’after e non si negavano mai alla cagnara. Si facevano offrire da bere, fumare, sballare, e qualche volta rimediavano pure una bella scopata sudata ed elettrica nel bus o in qualche camera d’albergo arraffata all’ultimo. Ricevevano sorrisi a sessanta denti, occhi dolci, batticinque, baci, palpate e complimenti. La gente voleva abbracciarli e fare foto con loro pure se erano luridi e gli diceva le robe più matte su come le loro canzoni li avevano aiutati in un brutto periodo, a smettere di tagliarsi, a superare la morte di un genitore, l’abbandono di un amore e persino ad accoppare in battaglia. Omaggio a cui s’erano imposti di credere il giusto. Firmavano dischi, maglie, scarpe, gessi, tette e una volta persino un cazzo. Gli regalavano di tutto: disegni, torte, vitine personalizzate per i piatti, cetrioli, disegni, biscotti, coperte, tazze, marmellate, magliette, animali impagliati, mutandine, bambole voodoo, pendenti, ciocche di capelli e una volta persino un pacemaker. Tutto ‘sto circo gli piaceva parecchio, ma avrebbero fatto le stesse cose per molto meno, pure solo per gli sputi, forse.

Eppure il primo bonifico serio era stato un salto. Avevano passato il pomeriggio a rimpallarsi la foto della transazione. Potevano fare solo quello e, pur senza grosse pretese, arrivare comodi a fine mese. Con gli altri però, talvolta ancora più grassi, nemmeno avevano saputo bene cosa farci. Ci si pagavano gli stravizi, compravano equipaggiamento o sfizi. La loro vita di base non era stata capovolta però. Posti e gente che frequentavano a casa, cioè sempre meno, erano sempre quelli. Solo Frison aveva cambiato appartamento, uno appena più grande in cui s’era portato comunque dietro Maniero. Ballerini non aveva avuto il cuore di piantare sua mamma. Rampino non s’era manco posto il problema e Boscolo, ora che stavano ingranando, era entusiasta di sbatterlo sul muso al suo babbo ogni volta che poteva. Almeno così diceva. Si portava dietro un maglione impregnato dell’odore di Nadia, lei lo usava per fare jogging e lui glielo trafugava fisso ogni volta che ripartivano, lo teneva nel borsone e sniffava di nascosto per tornare poi su a mille giri e trascinare tutti a fare banda con lo stesso sbalestrato distacco. «È un sociopatico, ma è un sociopatico generoso» l’aveva inquadrato l’autista. Le mandava foto a guizzi irregolari ma stabili e le scriveva «Ci torniamo?» oppure «Io e te» oppure una sfilza di emoticon tipo cuore nero, turbante, aquila. Certe volte, nel mezzo della cagnara e con la lingua già mezza in bocca a un’altra usciva di colpo e allora «Non vedo l’ora di riabbracciarti» le scriveva e giù la badilata non di quanto gli mancasse, ma di quanto gli piacesse sentirne la mancanza. Frison cianciava a manetta con fan e colleghi, intavolando discussioni progressivamente meno solide all’aumentare del tasso alcolico tipo «Non mi stanno antipatici gli Atreides perché sono completamente inoffensivi. Troppa elettronica, roba da discotecari quella» o «È evidente. Non c’è gara tra gli Deimos e i Risghilien, i primi sono stati già calpestati dalla storia mentre i secondi non importa come riescono sempre a farti schiantare su una verità assoluta. Innegabile che se uno è abbastanza fortunato da spararseli quando è ancora ragazzo non solo gli farà sviluppare il buon gusto, ma pure passare il materialismo o il capitalismo che è lo stesso». Prima di collassare, spesso si infilava in qualche angolo a chiamare Bianca che gli chiedeva a presa in giro, ma con un fondo di strizza «Allora hai finito di scopartele tutte?» e lui rispondeva «Sono in pausa» e poteva permetterselo solo perché non era vero. Pareva incorruttibile. Tanto che sembrava non lo facesse nemmeno per lei ma per rimanere su quel cazzo di piedistallo su cui s’era piazzato. Cosa avrebbe fatto Rampino non si sapeva mai. A volte si gettava pancia sui tavoli di qualche locale o scolava un intero fusto di birra per poi correre via a piedi nudi strillando «Non avremmo mai dovuto arrivare così lontano» o «Abbiamo vissuto così tanto che dovranno ammazzarci due volte!» o qualche altra stronzata. Manco l’avesse tirato su chissà cosa per depositarlo chissà dove. Certe sere si chiudeva a riccio nel bus, altre spippolava col telefono finché non trovava qualcuno con cui imbucarsi. 

Una volta Boscolo l’aveva preso in disparte, in una piazzola d’autostrada dove avevano appena finito di pisciare «Voglio solo che tu sappia che a me non cambia niente, sei persino più figo adesso che lo so, perdipiù non mi fai concorrenza, dovrò consolarle io quelle che non ti scopi, poverine e magari mi puoi pure spiegare qualche trucco nuovo». 

Ma Rampino aveva risposto solo con un sorrisetto ad occhi bassi.

«Certo che non ci cambia niente, che cazzo dovrebbe cambiare?» Frison agitava le mani manco dovesse spegnere un incendio «Ma vogliamo scherzare».

Ballerini sembrava tenere conto delle macchine che passavano «Sì. Fai attenzione però». 

Infine Boscolo «E poi diciamoci la verità, noi non possiamo parlare, non c’è cosa più gay di scoparsi una donna, quelle bamboline. Zitti lasciatemi finire. Lasciami. Noi siamo i froci della figa tutto qui». Frison gli era già addosso. «Lasciami».

Ballerini era, senza ogni ragionevole o irragionevole dubbio, quello che cuccava di più, eppure lo faceva con uno sconforto nervoso che gettava un sapore amaro sulle bocche incrociate. Da quando si era lasciato con Luna era caduto in un vortice di fregna e disperazione così fondo che tirava avanti a cene liquide e gli altri dovevano insistere perché buttasse giù qualcosa che non fossero dosi malsane di alcool. Tutto lo intristiva, niente come la gioia altrui. 

«Comunque il dolore ti dona» Boscolo provava a tirarlo su ma lui lo scartava con certi mezzi sorrisi che erano peggio di un pugno e aggiungeva «Stava meglio a te, mi sa». 

«Non sto scherzando, ‘sta merda brucia, non vorrà dire niente ma lo so e non sai quanto mi rode che faccia calore a tutti meno che a te, quello che ti fa male vorrei prendermelo io».

Ballerini distoglieva lo sguardo come a dire: No. Non puoi. Non sai quello che dici. «Grazie». 

Quando poi si ritrovava solo Boscolo persino ci provava, strizzava gli occhi, stringeva i pugni e provava a figurarsi una trasfusione in testa. La salvezza non possiede mai sé stessa e così le ossa, le piume, i nomi. Le ferite si scambiano, i denti si rubano, le morti si specchiano e basta.

«Mi rendi felice in un modo che non vorrei. Prima di stare con te, non sapevo che ci si potesse sentire così soli» aveva provato a spiegargli Luna l’ultima volta che si erano visti. Erano appena tornati da un tour parecchio lungo e lei era venuta a prenderlo all’aeroporto, roba che faceva molto poco al contrario di Nadia o Bianca. Era stata una giornata spettacolare, di quelle che ti fanno sentire immortale e poi ti sbudellano come un maiale. Erano andati al Museo Guggenheim a fingersi critici d’arte e inventarsi nomi cretini per le opere e poi sfiniti di vinello, in un canale mezzo nascosto, erano finiti a fare l’amore in un barchino. Lei sopra ad abbracciargli le spalle e sfregarsi su di lui, lui sotto a stringerle i fianchi e strusciarla avanti e indietro. Lo mordeva e lo baciava sul collo, evitando la bocca. Poi, abbracciati qualche centimetro sopra l’acqua «Parliamo» gli aveva detto. Mai gli erano mancate le sigarette come in quel momento. Per lui l’estate era finita lì. E pure parecchie altre cose. Quella notte non aveva dormito, come non ricordasse neppure come si faceva.

Il giorno dopo in saletta aveva raccontato tutto agli altri «L’ha chiusa!». Con una manata aveva buttato giù le birre dal tavolino «Proprio adesso che stavamo iniziando a trovare un minimo di equilibrio». 

«Cazzo» Frison evitava di guardarlo, s’era messo a raccogliere tutto «Mi dispiace».

«Hai idea di quanto deve essere innamorata per troncarla così? È talmente terrorizzata di perderti che preferisce farlo alle sue condizioni» Boscolo aveva spento l’aerosol che si sparava ciclicamente, preventivamente, anche se non aveva un cazzo.

«Ma che t’ha detto?» Frison ficcava dei cavi nel borsone e poi li tirava fuori.

Rampino si era messo il più lontano possibile, tolto il cappellino dei The Chariot e si grattava la nuca col frontino, ogni tanto apriva la bocca ma poi scuoteva la testa e non diceva nulla. 

«Se ci tenesse davvero sarebbe rimasta» Ballerini s’era acceso due sigarette.

«Non funziona così» Boscolo gliene aveva presa una «E poi cerca di snebbiartela un attimo, noi siamo sempre in tour e quindi non la vedresti comunque molto. Non capisci che è la tua occasione per mettere il pisello in qualche figa nuova? Magari trovi pure di meglio». 

«Fai schifo! Ma che dici Dio cristo» Frison lo fissava come gli fosse comparso davanti solo allora.

«Non me ne frega niente. Lo capisci che non siamo tutti come te?» Ballerini era scattato su con la testa, e persino Boscolo s’era ritratto d’una frazione. 

«Ma cosa ti ha detto?» Frison s’era seduto a terra e poi rialzato e poi risieduto. 

Rampino aveva fatto un passo verso Ballerini ma poi era tornato indietro stringendo i pugni. 

«E allora lotta, che ti devo dire, valla a trovare ogni volta che puoi, piantati davanti a casa sua finché non ti apre e fate l’amore fino a perdere i sensi. L’ha messa sotto un temporale, se resiste vuol dire che è destino e se invece affonda, beh, meglio prima che dopo. E se alla fine non resta, ci perde lei. Non dirgliela mai questa cosa però. Mai. Hai capito?».

Troppo tardi, con Luna ci si erano macellati. «Ma non eri tu che dicevi che l’amore è una guerra, che ci voleva il pugno duro, che bisognava mettersi la vernice mimetica e bruciare tutto, portarle al tavolo delle trattative in ginocchio, costringerle ad arrendersi su tutta la linea?». 

Frison aveva scosso la testa a occhi socchiusi «Vedi cosa succede ad ascoltare ‘sto testa di cazzo?».  

«Non l’ho fatto» Ballerini gli aveva scoccato un’occhiata come a dire di non rompere i coglioni.

«La cosa più difficile che nessuno ha mai imparato, è come amare e come essere amato» Boscolo gliel’aveva recitata manco fosse imbarazzato.

Ballerini si era sotterrato la faccia tra le mani e Rampino l’aveva abbracciato e continuato il verso «Tristezza, mia più vecchia amica, amara del tuo amore è la mia vita, ma se sei con me so che non è finita». 

A quel punto non ci aveva retto più. S’era sbriciolato. Certe volte a Ballerini pareva che fossero le canzoni a precederli o che cantare una cosa in fondo volesse dire metterla in moto e stare a guardare. «Basta». Boscolo aveva spento tutto «Rompete le righe». Frison aveva strabuzzato gli occhi e Rampino s’era tirato su come un cane sotto ultrasuoni. «Andate a casa» Boscolo aveva preso Ballerini sottobraccio, fatto gesto di non seguirli e se l’era tirato dietro verso il bar.

«Perché scappa?» aveva biascicato Ballerini dopo un numero vergognoso di shottini, spiaggiato con la testa sul tavolo che odorava di fritto, alcool stantio e del suo profumo. Quando stava male, per la legge del contrasto, se ne spruzzava addosso il quadruplo. 

«Per quel che vale, non credo stia scappando da te» Boscolo l’aveva sputazzato ingozzandosi di patatine, fondino necessario per stargli dietro, sapendo che quei bicchieracci vuoti sul tavolo sarebbero raddoppiati. Era una sera calda afosa in cui si sudava a star fermi. 

«Non me lo merito. Sono sempre stato onesto con lei, avrei potuto scoparmele tutte».

«Forse avresti pure dovuto, ma io ti rispetto per non averlo fatto, sul serio, forse lo capisco solo adesso, ma per te, tradire lei significava smerdarla tutta. La bellezza. La promessa. E tu non sei così Il cielo è dei violenti è vero, ma tu non sei un violento tu sei il cielo». 

«Eppure mi ha trebbiato».
«Succede anche ai migliori… di fronte all’amore non ci sono vincitori».
«Mi trovi patetico?» Ballerini si era tirato su.
«Al contrario, Il fatto è che tu sei quasi invincibile, non sei abituato a cadere, e quando cadi ti sfracelli. Ma non ti preoccupare, ti rialzerai. Noi siamo qui. Io sono qui».
«Non credevo avresti fermato le prove. A volte, quando suoniamo ho l’impressione che per te non siamo nemmeno più persone, parte della band e basta».
«Non le ho fermate. E certo che non siamo più persone».

Ballerini l’aveva guardato stranito, torcendo il viso «Ma cosa ho sbagliato secondo te?».

«Forse hai fatto tutto giusto e il problema è proprio questo. Lo sai che ti voglio bene vero?». Boscolo aveva fatto uno sguardo dolce e ordinato un altro giro.
«Tu mi avevi avvertito, non ti è mai piaciuta, e io non mi sono fidato».
«Lascia perdere, io non faccio testo, non sopporto la mia di ragazza, figurati quella degli altri». 
«A te non è che non piace lei. È che non ti piace amarla. Sei uno stronzo. E pure fortunato».

A questo Boscolo era rimasto zitto e si era grattato la nuca, per poi alzare le spalle. «L’amore non ha rime e» aveva cercato le parole nell’aria «Amare così tanto è già conoscerne la fine». 

«Non ci credo. Stai pensando di usare questa roba per una canzone?». Ballerini era altrove, né arrabbiato né stanco, lo raggiungeva solo con un mezzo sorriso rotto sulla bocca «Ogni riff che ho suonato mi ha allontanato da lei, è il motivo per cui non sono stato con lei, pure quando c’ero».
«Ma che discorsi sono?».
«Note come centimetri, è questo che ti sto dicendo» avrebbe voluto aggiungere che quanto pensato come contrappunto s’era ridotto a un duetto persino più solitario dell’assolo e invece «Volevamo crederci ancora vicini e invece siamo sbucati tutti e due al freddo e al buio».
«Ascoltami cazzo, io lo so che la bellezza fa promesse che non può mantenere. Ma fidati, astro mio livido, è molto meglio essere lasciati che lasciare. Molto. Chi è abbandonato vince sempre. Può dimenticare. Ha le canzoni dalla sua, chi lascia non ha canzoni, non ha nessunoAd amare non si sbaglia mai, ad essere amati sempre. E questa sì è una canzone. Per te».

Ballerini gli aveva lanciato un’occhiataccia come a dire: se continui ti rompo il muso. Allora lui s’era avvicinato e messo con l’indice sulla bocca come a dire: zitto, ascolta «Quello che sto cercando di dire è…» questo l’aveva scandito piano, manco avesse sentito effettivamente qualcosa attraverso la risacca di fondo del bar «Il silenzio è morte».

«Eh?». 

Boscolo era scattato avanti e l’aveva stretto forte «Ringhia e piangi se devi, fratellino, ma meglio ringhiare che piangere». 

***

«Che si fa eh brodo? Che si fa?» uno dei Sancta, parecchio sgorillato, aveva allacciato una scodella in testa a un altro, anche lui sbronzo, mazzolandolo con un neon a cilindro svitato chissà dove.

«Insisti, persisti, resisti!» ripeteva il secondo a farsi legnare sempre più forte. Fogher passò di là e gli rubò la lampada dalle mani, mollò uno scappellotto al primo e una piattata sul casco al secondo. Sopra di loro volavano rotoli di carta igienica come stelle filanti. Come da tradizione, anche dopo l’ultimo concerto, la festa era un macello. Tra membri della crew, altre band e ospiti erano cinquanta e passa pressati nella stanza, strippati, urlanti e poco vestiti. Faceva caldo. In sottofondo da un paio di casse usciva un’elettronica battente. C’era odore di sigarette truccate, fotta e guai. Non sarebbe stata la prima volta che li buttavano fuori da un albergo. Boscolo era salito su un tavolo, aveva stappato una bottiglia e spruzzava spumante a pioggia. Frison, con la bocca aperta e la lingua di fuori, cercava di rovesciare il piano e istigava la gente a far peggio. I La Nuit saltavano in groppa ai tecnici, gli Sturmfrei, ballavano coi bicchieri alzati e si rimpallavano una boccia con un gruppetto di ragazze. Pure Ballerini stava lì sotto a braccetto con due bionde, la prima parecchio carina, una gazzellona in shorts e canotta, pezzata sotto le ascelle, con le tette a idroscafo e le gambe lunghissime e lustre, ancora semi sobria, la seconda in mini-gonna e micro-top fluo, piccola e salterina, che pareva aver troppa energia per il tappetto che era, piatta, ma col culo tondo e tonico, meno belloccia ma comunque spigliata, biondo-crinita e in botta. 

«Ma non vi pare sia ora di chiuderla?» Fogher si fece largo fino a loro.
«Abbiamo appena iniziato» Ballerini prese le tipe e le portò verso il bagno, Boscolo saltò giù, lascio la boccia a Frison e si affrettò a seguirli quasi inciampando su un’altra bottiglia a terra.
«Tu non vai?» sbuffò Fogher.
«No» Frison succhiò a canna, sul naso un paio d’occhiali a tapparella tutti storti «Io sono contro per motivi ideologici, sì, è tutto un commercio anche quello, la droga ingrassa le mafie e basta. È una bella melassa. Gelatina potassa. Madonna mi sono proprio smerdato me lo reggi un attimo?» gli allungò il vino «E poi ‘sto modo di trattare le ragazze non mi piace per nulla no per un cazzo proprio. Pensavo che ‘sto giochino delle rockstar del cazzo fosse finito da un pezzo. Io preferisco stare con la mia donna anche se non la vedo mai piuttosto che mille tipe invisibili».

«Vero. Bravo. La piccola fame non scaccia la grande» Fogher gli allungò tre compresse: antiacidi, vitamine e fermenti lattici. «Non c’entrano niente» Qualcuno fece cadere una lampada, altri montarono sul divano e presero a ballare lì sopra.  

Frison buttò giù «Sì, tutto vero eh, ma la verità vera è che sono stufo marcio di vederli sempre vincere, figurati se ho voglia di sbirciargli pure il pisello. No. Non li invidio per un cazzo però, sia messo agli atti. Vinco anche io, ho già vinto. No. Comunque che hai detto? Hai fame? Pure io. E da quando ti preoccupi così tanto?».

«Da quando siete diventati degli stronzi fatti e finiti».
«Finiti?».
«Vi preferivo prima».
«Questa l’ho già sentita. Comunque ti ho capito sì. Ma adesso piacciamo ai ragazzini, alle ragazzine e chissà forse pure alle mamme e ai papà, piacciamo a tutti. Non ci dici bravi? Non sei contento?».

Fogher scosse la testa, rimase un secondo lì, si passò una mano sulla faccia, strizzò gli occhi e sospirò «Dove cazzo è quell’altro? Come cazzo sarà preso?».

«Io non lo so e tu non lo vuoi sapere».

Fogher era un vero scassapalle, ma si dilaniava per loro. Faceva da manager, agente, direttore di produzione, contabile, responsabile social, preparatore atletico, motivatore religioso, guardia del corpo, massaggiatore, psicoterapeuta, mediatore terroristico, venditore di merch supplementare, madre surrogata. Organizzava giornate, spostamenti, interviste, servizi fotografici, mandava mail a ogni ora del giorno, controllava che il bus fosse sempre rifornito, teneva in riga il resto della crew, negoziava le condizioni d’ingaggio, s’informava sui promoter e sui locali, risolveva problemi coi contratti e l’equipaggiamento, li portava a cena, andava a prendere ovunque, ascoltava provare, piagnucolare, biascicare e smandibolare, li divideva quando litigavano, spalmava di voltaren quando c’andavano troppo duro, metteva a letto impaccati di antibiotici e cortisone quando si ammalavano e ci mancava poco che gli desse pure il bacio della buona notte. Pigliava una percentuale standard. Come tutte le troie vere, non lo faceva solo per i soldi. Pur avendo ben presente come fargliene e farsene. Per questo, quando li prendeva a parole o a pedate, incassavano senza offendersi. Ultimamente però si prendevano a testate sempre più spesso, lui era un monaco straight edge dal nitore smussato come potevano diventare quelli che c’avevano dato troppo dentro e s’erano impauriti. Loro invece erano senza catene, non solo bevevano come autobotti, ma avevano iniziato pure con altro. Ballerini reggeva qualsiasi cosa senza scomporsi troppo, persino acidi e funghetti che però l’avevano stufato presto, appena capito che non aiutavano a comporre. Non lui almeno. Preferiva una spruzzata di ketamina o un bell’ossicodone per non sentire più un cazzo. Non cercava l’ispirazione ma il nulla. Boscolo alternava coca e anfetamine per andare su, benzo e barbiturici per tornare giù. Si era fottuto per bene il sonno. Già prima c’andava pesante coi sonniferi, ma ormai gli era difficile staccare la spina pure con dosi da cavallo. Frison e le sue quindici birre a sera, in confronto, parevano un’oasi di moderazione. Il problema vero però era Rampino, che sebbene preferisse un bel cannone, mefedrone, popper o GHB, si calava qualsiasi cosa su cui riusciva a mettere le mani, eroina esclusa. Rischiava comunque di restarci secco o almeno sotto, soldi e paura non li aveva mai avuti e ora era un casino. Dopo il Pitchfork Festival, si era fatto di chissà cosa e svarionato, prendendoli a morsi, ribaltando il tavolo del ristorante e scappando via per Parigi. C’erano volute cinque persone per riprenderlo e calmarlo sul lungofiume allo stesso chiosco ormai chiuso dove nel pomeriggio aveva insistito per buttare giù tre cornetti di fila. Da quel momento provavano a starci attenti, a buttarci l’occhio che manco avevano per sé. Qualche volta, però, riusciva lo stesso ad arraffare qualcosa e allora arrivederci. A volte sbroccava, altre non riusciva più a muoversi o riconoscere gli altri o nemmeno sé stesso e chiedeva «Dove siamo?» o «Chi siete?» con gli occhi orlati di rosso, pallidi e indifesi.

Mentre batteva da dietro la stangona bionda, piegata in avanti dentro la vasca da bagno, con uno schiocco secco e gli occhi chiusi, pure Ballerini spiralava su dove fosse Rampino e se stesse bene. Aveva sicuro preso il largo per qualche avventura spassosa e infima eppure lui a star tranquillo non riusciva. Boscolo, nel frattempo, stava scopando l’altra bionda, la piccolina, seduto sul cesso, su e giù sul pisello con quei braccioni che gli erano venuti. «E se finisce con qualche vecchio merdoso che gli attacca qualcosa?» scappò in sbuffo a Ballerini, la ragazzotta non capì e fece per voltarsi ma lui la ributtò giù e riprese a battere più forte. «Eh?» Boscolo soffiò e continuò sbatacchiarsi la tipa. Lei gli stringeva una mano al collo e l’altra se la mordeva che pareva mangiarla, dagli inguini le gocciolava un rivolo sulle piastrelle già luride per le pedate di chissà chi. Ballerini manco si era spogliato, abbassato i pantaloni e basta, la camicia aperta fino all’ombelico puzzava di fumo e vino «O un bastardo che gli fa delle foto e lo ricatta?». Boscolo gli fece il dito medio senza guardarlo, con l’altra strizzò una tetta della tipa, anche se c’era ben poco da stringere, le diede una leccata a bocca aperta e poi rimase lì col muso premuto. «O gli fanno del male» Ballerini mollò un cazzotto al muro e digrignò «O gli spezzano il cuore?». La tipa sotto ebbe un sussulto e poi ansimò una risatina. La piccoletta non ci fece neanche caso.

Erano tutti abbastanza avanti, nel naso quasi un grammo a testa. Boscolo grugnì. Ballerini sbuffò a denti stretti e si allungò a prendere la tipa per le spalle e rifilarle delle bordate più secche. Quella fece un verso acquoso, aveva il culo tutto lucido di sudore. Lui buttò indietro la testa, rovesciò gli occhi come a slanciarsi oltre il soffitto. Già questi pensieri gli trapanavano il cranio, ma a volte ci si infilavano dentro pure certe eco retiniche di Luna, e ridicola gli saliva la speranza che la tipa che stava scopando questa o quella volta si girasse e fosse lei, che quel corpo casa fissato ad occhi chiusi, escluso a mani aperte, emergesse tra le pieghe della pelle estranea, dispiegandosi dal cavo dietro alle ginocchia o tra le ascelle. A rendersi conto che non era così e forse non lo sarebbe stato più, gli prendevano certe fitte ai polmoni e respirava forte, a bocca aperta, come un macaco del cazzo. Si girò verso Boscolo «Basta». Non sapeva cosa lo sconquassava di più. Boscolo si fermò, smontò la piccoletta di peso e strusciò il naso sul piano del lavandino dove avevano sistemato le raglie. Qualcuno batté sulla porta. Anche Ballerini smise di spingere. Il cazzo gli si era smosciato, in verità con quello che avevano pippato era già un miracolo che gli tirasse e fossero riusciti a srotolarci un goldone sopra. Ballerini se lo strappò via e lo gettò nel cestino. Boscolo prese su mutande e pantaloni e recuperò la maglia a terra «Scusate ragazze, dobbiamo andare. Forse torniamo». Le due tipe, una in piedi a dondolarsi tra le scarpe e i vestiti, l’altra ancora piegata giù lo guardarono con gli occhi pesti, rimasero un secondo stordite e fecero per dir qualcosa ma «Ciao» Boscolo prese Ballerini per un braccio e lo trascinò fuori ancora con la patta aperta. Ballerini superò la gente e la stanza come fosse cieco o inseguisse gli occhi andati già oltre. Uno degli Sturmfrei era collassato dentro il frigo, svuotato dai ripiani, una bottiglia in braccio.

«Mi pareva di avere il pisello in una fontana, non sentivo un cazzo. Comunque secondo te si considerano scopate? Io le considero scopate. Dopo chiamiamole però, non siamo stati molto carini» scendendo per le scale Boscolo si ravanava il pacco per sistemarlo, tirò su il preservativo che gli era rimasto incollato e se lo lanciò dietro le spalle «Donne. Non puoi vivere con loro e non puoi vivere senza di loro eh?».

Ballerini era sempre due gradini avanti «Comunque va fatto» buttò lì, la faccia già nel cellulare.

«Quale delle due?».

Non gli rispose. Lungo le scale un tizio che stava lì a girarsi una cicca fece per trattenerli «Oh ma dove andate?». Loro fecero un cenno e continuarono a scendere, la musica si faceva più lontana, le percussioni ridotte a un battito scavato. Frison non si trovava. Fogher aveva scritto che arrivava. Quando scesero in strada, mentre Ballerini chiamava per la quinta volta Rampino che dava sempre segreteria, una ragazzina lì appostata puntò Boscolo a passetti veloci, lui le lanciò uno sguardo a suo modo gentile come a dire: grazie cocchina bella ma stasera abbiamo già dato. Ma lei stringendo i pugni, con gli occhi rossi e lucidi gridò tutto d’un fiato «La tua canzone è bugiarda! Non è vero che smette di fare male, che passa, che dopo il momento più buio viene l’alba, se il dolore ci rende più forti perché mi sento così debole?». 

Boscolo strabuzzò gli occhi, pietrificato e si girò verso Ballerini che nemmeno l’aveva registrata e gli fece solo spallucce come a dire: il solito. Pure Boscolo in un mezzo battito le aveva fatto la tac. La classica pazza della prima ora, si era pensato, nostalgica del cazzo che chiede alla sua band del cuore di buttare fuori sempre la stessa musica, non tradire, non cambiare mai. Un problema banale nel giro loro, anche se di solito erano solo vomiti e pugnali nei commenti. Nessuno veniva mai a dirti queste cose sul muso, eppure la moretta continuò «Come osi parlare della mia tristezza se non la conosci?». Aveva i capelli ad altezza spalle, arruffati. Gli occhiali grossi, rossi. Una specie di body nero sintetico che si allungava nei pantaloncini aderenti a metà coscia. Sopra una giacchetta leggera con la zip. Il tatuaggio di un gattino, collarino. Carina. Sedici anni o poco più. «Tu hai detto che volevi che il mondo bruciasse ma non hai dato fuoco a niente! Io ero disposta a bruciare tutto per te, a darmi fuoco per te, ma non dicevi sul serio, tu sei parte di questa merda come tutti gli altri» Allora Boscolo marinato nell’alcol e nella coca, con gli occhi bordati da un alone viola fece come per abbracciarla, ma lei sussultò e gli mollò un cartone sul muso a piena forza. Poi saltò indietro e rimase un secondo lì a guardarlo in tralice e ribollire. A quel punto piombò a corsa un gruppetto di ragazzini amici suoi e pure Ballerini fece un passo avanti e si scoprì persino sollevato all’idea di una zuffa. Scrocchiò le nocche. Mai toccato una donna, nemmeno con il proverbiale fiore. Neppure un uomo se era per quello. Però in quel momento l’idea di mollare una labbrata anzi di pigliarla, gli sembrò addirittura confortante. Finché pensava quella cazzata, gli amici della tipa la presero di peso e la trascinarono via. 

Boscolo non si teneva la faccia, premeva invece una mano sul cuore «Anche se non lo vogliamo, è la somma delle nostre ferite che ci rende chi siamo!» le urlò dietro fortissimo, così che la sbarbina lo sentisse dalla fine della via. Aveva gli occhi sbarrati, il collo proteso. 

Ballerini rimase lì, indeciso se dare un calcio almeno a lui o abbracciarlo, si chiese se fosse realmente così o se quel cazzo di venditore di speranze ci credesse davvero o pure lui se la stesse solo raccontando. 

ARTICOLO n. 37 / 2025