ARTICOLO n. 49 / 2025

MAGRE COME LAME, LISCE COME PORCELLANE

Storia di come ci hanno convinto a cancellarci da sole

Giugno. Estate come orizzonte vicinissimo, e con lei l’immancabile conto in sospeso della “prova costume” – quel delizioso momento dell’anno in cui la stessa industria che ci ha nutrito per mesi di ricette gourmet e comfort food scopre improvvisamente, e con finta sorpresa, che i nostri corpi sono fondamentalmente inadeguati. Chi l’avrebbe mai detto.

La pubblicità – questa forma evoluta di bullismo con licenza commerciale – si trasforma in un’apoteosi di prodotti miracolosi che promettono di “sgonfiare”, “drenare”, “snellire”: tutti eufemismi eleganti per comunicare che il vostro corpo, nella sua presuntuosa configurazione naturale, rappresenta un errore da correggere con urgenza prima di osare comparire in pubblico. Perché evidentemente donne con peli, rughe, grasso o cellulite costituiscono una sorta di glitch evolutivo che disturba l’armonia universale.

Ma questo terrorismo estetico stagionale è solo la punta dell’iceberg di una patologia ben più radicata. La sacra trinità dell’accettabilità femminile – magre come lame, lisce come porcellane, eternamente bloccate in un range che va dai 17 ai 22 anni – non è una casualità del gusto. È un sistema di contenimento perfettamente ingegnerizzato, progettato per mantenere le donne in uno stato di perpetua inadeguatezza, perenne dipendenza dal mercato della correzione corporea e costante distrazione da questioni che potrebbero risultare davvero fastidiose per chi comanda. Perché mai perdere tempo a pensare al gender pay gap quando si può investire ogni energia mentale nel contare le calorie? Quale strategia di neutralizzazione potrebbe essere più elegante del convincere metà della popolazione che la sua missione principale dovrebbe essere l’eliminazione di quei tre centimetri di tessuto adiposo che osano manifestarsi intorno alla vita?

E allora ogni anno, puntuale, parte la grande pantomima. Prodotti detox e abbigliamento contenitivo spuntano come funghi nei feed, a ogni scroll, su ogni muro. “Sgonfia!” “Drena!” “Brucia!” “Pialla!” – un manifesto futurista applicato alla carne femminile, dove la velocità non è più conquista dello spazio ma eliminazione del volume corporeo. Marinetti sognava macchine che sfrecciassero verso il futuro; l’industria della bellezza ha realizzato corpi che obliterano il qui ed ora. Il messaggio però, mascherato a malapena, resta ben più brutale: il tuo corpo è sbagliato. Punto.

Le pubblicità che esplodono simultaneamente hanno ancora volti e corpi femminili impossibili.
Ci fissano, loro, con sorrisi identici, complici del più perfetto dei crimini: aver trasformato l’autocritica in ossessione quotidiana. Cosce con cellulite che passeggiano tranquille? Inaccettabili. Un volto che mostra rughe che indicano esattamente la sua età – senza che questo sia un errore di sistema? Scandaloso.

D’altra parte, vietare alle donne di pensare suonava un po’ troppo radicale come faccenda: meglio convincerle che monitorare il proprio aspetto sia ciò che di più importante esista. E non dimentichiamo di rendere il processo attraente, legale, socialmente accettato. Anzi, facciamo di più: incoraggiamolo. Per il nostro bene, si intende. 
La formula è semplice quanto disturbante: devi essere sexy ma infantile, provocante ma innocente, sessualmente disponibile ma fisicamente pre-puberale. Chiamiamolo pure “istinto naturale”, questo desiderio estetico maschile che con straordinaria coincidenza si allinea perfettamente agli interessi del patriarcato. Corpi femminili accuratamente privati di ogni segno di autonomia biologica. Pelle liscia, assenza di peli, magrezza estrema: tutte caratteristiche che, guarda caso, mimano i corpi bambini. Nelle culture patriarcali il desiderio maschile si struttura regolarmente attorno a fantasie di dominio e possesso assoluto. La donna matura, con la sua inquietante autonomia incarnata, è troppo minacciosa. Meglio una versione addomesticata, un pupazzetto con le curve nei punti giusti ma priva di quella scomoda agentività che potrebbe mettere in discussione l’idea del dominio, anche fisico.

Ne è stranamente piena la cultura incel, del dogma che le donne, per esempio, debbano pesare meno degli uomini. Ed è proprio qui che si concentra tutta la problematicità di questa forma di desiderio: voler possedere un soggetto desiderante mentre si teme la sua capacità di desiderare autonomamente. Contraddizione che la nostra cultura risolve con eleganza proponendo un ideale estetico femminile che combina disponibilità sessuale e innocenza fisica, competenza emotiva e docilità corporea. 
Non è casuale che la pornografia mainstream sia un catalogo interminabile di corpi femminili adulti con caratteristiche fisicamente infantili – vulve completamente depilate, corpi privi di peli e spesso eccessivamente magri – che performano atti sessuali in posizioni di sottomissione. Un messaggio che diventa manuale di istruzioni e che viene consumato da un pubblico maschile fin dall’adolescenza: il corpo femminile desiderabile è un corpo che si sottomette, che non mostra segni di potere autonomo, che non dice “NO.” 
O se lo dice è solo perché intende “sì”.

Naomi Wolf l’aveva capito trent’anni fa: la questione non è la bellezza, la questione è il controllo. L’infantilizzazione estetica è un meccanismo sofisticato che mantiene le donne insicure e dipendenti in un’epoca in cui la subordinazione esplicita è diventata socialmente inaccettabile. Non è un caso che questi standard diventino sempre più rigidi proprio quando le donne guadagnano potere in altri ambiti. È la compensazione simbolica perfetta: puoi avere il tuo posto nel consiglio di amministrazione, a patto che ti preoccupi costantemente di apparire come una ventenne anche a cinquant’anni. Puoi essere una madre fantastica, purché non ti lasci andare. Puoi avere una relazione di vent’anni, ma guai a sembrare di vent’anni più vecchia di quando è iniziata. Puoi essere intelligente, colta, divertente, ma se hai la cellulite sei comunque un fallimento. Puoi anche salvare il mondo, basta che ti ricordi di farlo con la taglia 40.
Tra tutti questi comandamenti, però, ce n’è uno che li tiene magicamente insieme: devi occupare il minor spazio possibile. La magrezza femminile non è solo un diktat, è una metafora vivente della riduzione sociale a cui il corpo femminile è sottoposto. Eppure, fino a un secolo fa le rotondità femminili erano celebrate come segno di prosperità e bellezza. Che coincidenza che siano diventate inaccettabili proprio quando le donne hanno iniziato a reclamare spazio sociale. Forse i corpi magri non sono quell’universale biologico che ci hanno spacciato per innato. 

Forse, ci stanno raccontando storie che abbiamo paura di consapevolizzare fino in fondo.

La conquista del voto per le donne degli anni ’20 porta con sé le flapper dai corpi androgini. Il femminismo degli anni ’60 coincide con l’ascesa di Twiggy e la sua estetica dell’inedia volontaria. Per le donne che negli anni ’80 entrano massicciamente nel mondo professionale avere il 10% di grasso corporeo diventa un imperativo morale. E quando negli anni ’90 raggiungono posizioni di potere reale, ecco Kate Moss e l’heroin chic – il corpo emaciato come ideale supremo a cui aspirare. Susan Bordo lo spiega con una chiarezza dolorosa in Unbearable Weight: un corpo affamato è un corpo che non ha energia per ribellarsi. L’ossessione per la dieta è il perfetto dispositivo di controllo per un’epoca in cui non puoi più dire apertamente alle donne di stare al loro posto. Le calorie diventano il nuovo rosario, contate ossessivamente mentre si potrebbe contare, che so, quante ore di lavoro di cura non pagate si svolgono a confronto degli uomini. 
Il potere politico viene barattato con il controllo fisico. Prenditi questa piccola libertà, costa solo un imperituro giudizio sul tuo aspetto. 

Le donne credono di vincere mentre negoziano la propria scomparsa materiale.


Ma il lavoro per sottrazione nell’estetica della magrezza è solo l’inizio di un processo più ampio di cancellazione corporea. In questo repertorio di ossessioni, la depilazione occupa un posto d’onore: l’unica pratica di mutilazione estetica che gode dell’alibi igienico. Come se i peli, questi misteriosi elementi che l’evoluzione ha selezionato per millenni come utili al corpo umano, diventassero improvvisamente “sporchi” e “antiestetici” solo quando spuntano su un corpo femminile. Gli stessi peli che su un uomo sono indice di virilità, su una donna diventano problema sanitario. 
Eppure fino a ieri – storicamente parlando – le donne mostravano tranquillamente ascelle e gambe pelose. Poi l’industria cosmetica ha avuto la sua geniale intuizione: perché vendere prodotti di depilazione solo per il viso maschile quando si può convincere metà della popolazione di dover rimuovere peli da tutto il corpo, raddoppiando – di fatto – il mercato?

Il pelo femminile minaccia qualcosa di fondamentale: segnala inconfutabilmente la maturità sessuale. Non a caso la depilazione pubica totale è diventata standard proprio con l’esplosione della pornografia online. La correlazione è documentata: la rimozione dei peli pubici femminili è direttamente legata alla normalizzazione del porno mainstream, dove le donne devono apparire come bambole sessualizzate piuttosto che come adulte con corpi che mostrano segni di maturità e autonomia. Questo desiderio distorto non è innato ma metodicamente costruito attraverso una socializzazione che insegna ai ragazzi ad associare la mascolinità con il dominio e a temere la femminilità e la sua agentività come minaccia al controllo. L’ansia profonda che questo genera viene convertita in preferenza estetica: il corpo femminile desiderabile è quello che non fa paura, che evoca vulnerabilità invece che potere.

I peli sono indicatori: raccontano la netta divisione tra interno ed esterno. Meglio un corpo femminile leggibile, prevedibile, docile. Un corpo depilato è un corpo disciplinato, un corpo che ha accettato di dedicare ore della propria vita, non senza dolore, e centinaia di euro all’eliminazione di qualcosa che continuerà ostinatamente a ricrescere, in una perfetta metafora di arrendevolezza. 
E l’uso che le donne fanno del tempo è anch’esso indicatore: ore spese a depilarsi, ore investite in beauty routine, ore davanti allo specchio a scrutarne lo scorrere. Una perversa lotta meta-temporale dove il tempo viene consumato per cancellare le tracce del tempo stesso. Si spreca presente per negare il passato, in un circolo malsano che trasforma l’esistenza femminile in una guerra contro la propria storia corporea.

Laura Hurd Clarke lo documenta senza pietà nei suoi studi: l’invecchiamento maschile viene celebrato come accumulo di valore – esperienza, saggezza, autorità – mentre quello femminile viene patologizzato come decadimento e perdita di valore sociale. Gli uomini sono individui che invecchiano, le donne sono corpi che deteriorano. Questo implica che il valore sociale femminile rimane ancorato primariamente all’aspetto fisico giovanile, rendendo qualsiasi conquista professionale o intellettuale vulnerabile all’erosione del tempo. Sarà una pura coincidenza anche il fatto che l’ossessione per i trattamenti “anti-age” sia esplosa negli anni ’80 e ’90, proprio mentre le donne conquistavano posizioni di potere precedentemente riservate agli uomini. L’imperativo di mantenersi giovani funziona così da meccanismo compensatorio: puoi avere potere, a patto che non sembri avere l’età per esercitarlo legittimamente, in un ambiente che avalla e incoraggia la privazione – per le donne – proprio di ciò che tradizionalmente conferisce autorità, la maturità visibile.

La pervasività di questi standard estetici si basa su un sofisticato sistema di controllo in cui le donne sono simultaneamente sorvegliate e spinte all’auto-sorveglianza: interiorizzando lo sguardo valutativo esterno diventiamo implacabili giudici di noi stesse. 
Ma come è possibile che le vittime si trasformino in carnefici? Per capirlo, dobbiamo familiarizzare con il concetto di violenza simbolica, quel fenomeno per cui chi è oppresso interiorizza i valori di chi opprime, fino a diventare i più zelanti guardiani della propria gabbia.
Guarda le donne che si affamano, si giudicano a vicenda, si flagellano pubblicamente per come cade un vestito, come se avessero commesso un crimine contro l’umanità. Guardale mentre spendono il loro denaro per piallare la pancia, per stramazzare in palestra, per cancellare quella ruga di espressione. Il patriarcato non può che ringraziare: non c’è bisogno di controllare le donne quando sono così brave a controllarsi da sole.

Chi scrive, naturalmente, non è immune da niente di tutto questo. 
Puoi decostruire il sistema quanto vuoi, ma prova a passare davanti a una vetrina senza controllare istintivamente il tuo riflesso. La teoria è una cosa, il corpo condizionato da decenni è un’altra. Riconoscere la gabbia non significa esserne fuori.
Siamo cresciute imparando che esistere significa prima di tutto essere guardate, che camminare per strada è sempre una piccola performance, che entrare in una stanza comporta una frazione di secondo in cui veniamo scansionate e giudicate. Questo sguardo interiorizzato ci accompagna ovunque: condiziona come ci sediamo, come gesticoliamo, come scegliamo i vestiti al mattino. Influenza persino il nostro modo di occupare lo spazio – quanto rumore facciamo quando ridiamo, quanto posto prendiamo sui mezzi, se osiamo mangiare con appetito in pubblico.
Siamo archeologie viventi di condizionamento estetico. Strati su strati di comportamenti appresi che si sedimentano fino a sembrare istintivi. 
Il modo in cui succhiamo in dentro la pancia quando incontriamo una superficie riflettente. Come sistemiamo automaticamente i capelli prima di entrare in una riunione. La modalità migliore di truccarci per sembrare naturali. E lo sguardo, sempre indagatore, dentro lo specchio. A qualunque età.

In questo sistema di disciplinamento, i media tradizionali e i social media fungono non solo da vetrine di ideali irraggiungibili, ma da strumenti di normalizzazione che definiscono i parametri dell’accettabilità corporea.  Esiste ormai da anni un insidioso slittamento discorsivo: dalla rappresentazione oggettificante del corpo femminile si è passati alla promozione di una “soggettività imprenditoriale” che invita le donne a percepire il proprio corpo come un progetto perpetuo di auto-ottimizzazione. Questa retorica dell’empowerment maschera efficacemente relazioni di potere sotto il linguaggio della scelta individuale e dell’auto-miglioramento.

Questo sistema, però, pur se perfettamente oliato è attraversato da crepe sempre più profonde. Diverse modalità di resistenza individuale e collettiva hanno preso forma; movimenti body positive e fat acceptance hanno sfidato la stigmatizzazione dei corpi non conformi, mentre le comunità femministe hanno sviluppato pratiche di “bellezza sovversiva” che contestano deliberatamente le norme estetiche dominanti. Tuttavia, anche queste forme di resistenza rischiano di essere riassorbite dal sistema che intendono contestare. L’industria della bellezza ha dimostrato una straordinaria capacità di appropriarsi dei linguaggi della liberazione corporea, trasformando slogan come “ama il tuo corpo” in nuovi imperativi di consumo e auto-ottimizzazione. Provate a cercare “body positivity” su Instagram: troverete migliaia di influencer che vi spiegano come amarvi mentre vi vendono integratori, skincare routine e leggings.

La resistenza, quindi, non può limitarsi a riformulare l’estetica: deve smantellarne le fondamenta. 
Il primo passo verso una reale liberazione consiste nel riconoscere la natura politica di ciò che viene presentato come personale. Le “scelte estetiche” individuali avvengono all’interno di strutture sociali che premiano pesantemente la conformità e puniscono altrettanto severamente la devianza. Riconoscere che tali scelte sono fortemente condizionate non significa negare l’agency femminile, ma situarla all’interno di rapporti di potere che la influenzano profondamente. Serve un’alfabetizzazione critica che permetta di decodificare i messaggi impliciti, riconoscendo questi canoni come prodotti culturali arbitrari anziché verità universali.
E soprattutto serve riscoprire il corpo non come progetto da perfezionare, ma come soggetto vivente la cui dignità risiede precisamente nel suo essere imperfetto, mutevole, gloriosamente umano. 
Cosicché l’estate possa ritornare a essere solo una stagione, anziché un tribunale.

ARTICOLO n. 48 / 2025