ARTICOLO n. 79 / 2025
L’ARANZULLIZZAZIONE DEL WEB
All’inizio non ci avevo fatto caso. L’intervista era passata sottotraccia, o forse mi ero soffermato sui dettagli sbagliati: lo stile di vita disciplinatissimo, il culto del corpo, il primato del codice. E invece avevo mancato il punto. Dell’intervista dal BSMT del maggio 2024 – riascoltata mesi dopo – è tornata a colpirmi una frase: «Finirà male per tutti. Già adesso, il cinquanta percento dei lavori che vengono fatti in ufficio è inutile. Con l’Intelligenza Artificiale è probabile che questa soglia salga al novanta percento. Per cui la vera domanda è capire che cosa faranno le persone non nei prossimi dieci, ma nei prossimi cinque anni. Anche un sito come www.aranzulla.it potrebbe non avere più senso». A parlare è Salvatore Aranzulla, punto di riferimento nazionale per le guide passo-passo, l’uomo che ha insegnato agli italiani a non odiare la tecnologia: come fare il backup, togliere i popup, installare la stampante, accedere al modem…
Come è possibile, viene da chiedersi riascoltando il podcast, che il Virgilio degli aspiranti “integrati” assuma toni “apocalittici”? Perché mai, delle vecchie e nuove tecnologie, prendersela proprio – e così esplicitamente – con l’Intelligenza Artificiale? Insomma, cosa sta succedendo? Sta succedendo che non cerchiamo più su Google, almeno non come prima. ChatGPT, Gemini, Perplexity: ci rivolgiamo direttamente all’oracolo, saltando il motore e ciò a cui dava accesso, ovvero link, finestre, piattaforme, autori, dibattiti… Google stesso e così i social network cambiano pelle: snippet, risposte AI, anteprime che ti dicono tutto senza farti cliccare nulla. La rete si dissolve nel momento stesso in cui, puntualmente, ti risponde. All’interno di tale scenario, non è difficile immaginare l’affiorare – nel blogger, informatico e imprenditore italiano – di un sentimento di crisi, come se le forme del nuovo tendessero irrimediabilmente ad assomigliare alla sua creatura, conducendola verso un inimmaginabile compimento.
Si potrebbe dire che Aranzulla ha vinto troppo bene. Con il suo sito ha creato uno modello e uno stile: contenuti che ti prendono per mano e anticipano i tuoi problemi, le tue esigenze. Ogni gesto è dunque scomposto, sezionato, spiegato. E ora quel modello trova piena affermazione nel web delle chat. Ovviamente, le Intelligenze Artificiali non copiano www.aranzulla.it, ma lo magnificano: espandono all’infinito la logica del tutorial, la sequenza ordinata di passaggi, la risposta istantanea a ogni micro-esigenza del quotidiano. Ma fanno anche qualcosa in più: spingono questo modello verso l’autonomizzazione, non limitandosi a suggerire all’utente come risolvere un problema, ma facendo in modo di risolverlo direttamente. Che si tratti di scrivere un’e-mail, generare un codice, completare un modulo o installare un software o un hardware, l’intervento umano tende ormai a ridursi a uno scroll di supervisione o a un clic di conferma, quando servono.
Potremmo chiamarla “aranzullizzazione del web”. Una tendenza a concepire la rete in termini di problema e soluzione, dove ogni contenuto è ridotto a guida, dove ogni messaggio punta a rispondere e risolvere prima ancora che tu abbia finito la domanda. Non più sapere, ma tutorial e iter. Non più percorsi, ma scorciatoie. Ecco allora il sentimento che sembra affiorare nell’intervista dal BSMT: non la sconfitta, ma il completamento; non la decadenza, ma il paradosso di un’anonima antonomasia. Quando altre voci iniziano a somigliare alla tua – ma sono più rapide, capillari ed efficaci – la tua presenza diventa meno indispensabile. Sei diventato il template.
In mezzo a tanti discorsi, non vorrei che qualcuno interpretasse questo pezzo come una riflessione sul modello di business dell’imprenditore italiano. Non vorrei nemmeno che fosse letto come una critica indiscriminata ai tutorial online e all’affermazione dell’IA. Piuttosto, si tratta di provare a ragionare liberamente, tra il serio e il faceto, su alcune tendenze tecnologiche e culturali del presente. Se si può parlare di aranzullizzazione del web è perché una certa concezione di internet (e non solo) improntata sull’identificazione di questioni o problemi, sul loro management e dunque sull’idea di trasformare tutto in un processo operativo era già ben presente al di fuori dal sistema dell’IA e della rete stessa. Se, quantomeno in Italia, l’espressione “aranzullizzazione del web” rende l’idea, è precisamente perché descrive una condizione di internet, così come di altri possibili ambienti dell’esperienza, in quanto concepiti non tanto per navigare, abitare o transitare, ma per risolvere e ottimizzare sotto la guida di un tutore o per tramite di un set di regole di esecuzione ben definito.
Non è l’efficienza a inquietare, ma la sua inevitabilità: l’idea che ogni margine di incertezza sia presuntivamente previsto, ridotto, pre-processato. Dopo anni in cui abbiamo assistito allo sdoganamento e alla glorificazione dell’errore, in quanto imprescindibile occasione di crescita individuale e collettiva – perché “certi successi non li puoi ottenere se prima non hai toccato il fondo” – eccoci adesso alla strumentalizzazione del dubbio nella logica delle chat. Ad affermarsi in questo modo non è solo una nuova retorica fatta di domande e risposte serrate – che caratterizza le chat ma si rinviene in modo crescente anche in altri ambiti – ma una visione del mondo. Tutto ciò come se non si potesse più essere online altrimenti che per risolvere qualcosa, mitigare un rischio, ottimizzare un processo e massimizzare un valore. Come se non ci fossero più biciclette da inforcare e marciapiedi da passeggiare o – senza scomodare il poeta – tastiere da scrivere e spazi fisici o virtuali da progettare.
Mentre sono l’utente di un servizio di problem solving, sono anche la materia prima di tale processo, senza che sia del tutto possibile comprendere quali problematiche ciò comporterà nell’immediato e nel medio e lungo periodo, né a chi chiedere di rispondere a tale dubbio. Da un lato, ciò che viene prodotto – la risposta – è il risultato di un calcolo sulle regolarità linguistiche e contenutistiche estratte da un’immensa massa di dati testuali: non riflette la realtà, ma le modalità statisticamente più plausibili con cui simili questioni sono state formulate e risolte nel corpus da cui il modello ha appreso. Dall’altro, ogni mia esitazione – insieme a quelle di miliardi di altri – diventa un dato utile a perfezionare algoritmi, ottimizzare contenuti, orientare offerte. La messa a punto dei contenuti non si esaurisce nel momento dell’interazione: ogni risposta accettata, ogni clic di conferma o mancata obiezione rinforza implicitamente una direzione, un modo di intendere la soluzione. Come dire che ogni incertezza è già valore futuro, ogni possibile domanda è già una categoria di mercato. Tutto contribuisce ad alimentare un’infrastruttura che mira ad anticipare, prevenire, prevedere. Tutto è insomma risolvibile o già risolto, nella misura in cui il problema è continuamente spostato altrove, laddove – sollevato dai feedback ottenuti – non me lo pongo più.
L’IA tende ad anticipare ogni dubbio, tende a rispondere prima ancora che venga espresso, consegnandoci la promessa di un mondo senza questioni. Eppure, se tutto si spiegasse da sé, non ci sarebbe più nulla da chiedere. Da tale punto di vista, è come se l’IA fosse in anticipo – speculandovi – rispetto a un ritardo che non è in grado di colmare, come appoggiata su un dirupo del quale prova a rispondere ma che non le appartiene. Forse è proprio in questa vertigine che si producono le “allucinazioni”: quei momenti in cui le IA affermano con estrema sicurezza cose fittizie, nel senso di plausibili ma prive di riscontro. Non si tratta di semplici errori, ma di scarti strutturali, dovuti al fatto che questi modelli generano risposte sulla base di regolarità statistiche presenti nel linguaggio e nell’enciclopedia implicita dei contenuti circolanti: producono ciò che ha più probabilità di essere detto in un certo contesto. Eppure, proprio in tale dinamica di funzionamento, proprio nel fenomeno delle allucinazioni – una volta riconosciute come tali – potrebbe risiedere un potenziale sperimentale e creativo: un’occasione per mettere radicalmente in discussione, a ogni occasione, tanto le fonti quanto i processi di costruzione del sapere. In ambito creativo, queste sviste possono diventare spunti per idee nuove – castelli di carta e laboratori del possibile – capaci di rigenerare la visione e la comprensione stessa della realtà. Sul piano scientifico e comunicativo, la tendenza all’allucinazione da parte delle IA può invece stimolare il controllo critico dei contenuti, favorendo un processo di produzione del sapere che, proprio perché consapevole di delegarne una parte, non dà nulla per scontato.
Non so se queste metafore dell’anticipo sul ritardo e del dirupo rendono l’idea, e bisognerebbe migliorarle e correggerle, fino a prendere sul serio ciò che provano a dire dello scenario tecnologico contemporaneo. Ma il punto è che molto probabilmente siamo disposti a ignorare tutto ciò che comportano, ovvero a fregarcene di questioni apparentemente fumose. Sebbene persistano resistenze e si moltiplichino le riflessioni critiche sulle implicazioni etiche e politiche delle nuove tecnologie, le crescenti interazioni con le IA restituiscono una tendenza all’integrazione. E, forse, dopo questa prima fase di diffusione al servizio degli utenti, ciò che le IA prospettano, sul medio periodo, non è soltanto la perdita di posti di lavoro descritta da Aranzulla nell’intervista dal BSMT, ma l’affermazione di un mondo in cui non ci sia più nulla da chiedere o da risolvere in proprio, ovvero un mondo in cui ogni processo venga delegato a un grande algoritmo di risoluzione dei problemi basato su principi economici preimpostati. Si tratterebbe di un mondo nel quale, sprofondati in una festività radicale, potremmo posizionare le nostre sedie da campeggio in prossimità di uno schermo in cui il grande spettacolo dell’IA si darebbe in qualche modo a vedere.
Per concludere sul filo dell’insostenibile leggerezza del medium: in un web dove tutto si spiega da sé, cosa ci resta da cercare sul sito fondato da Salvatore Aranzulla? Perché fargli visita? Resta il gusto di perdersi un po’, di leggere una “guida vera”, un libretto delle istruzioni come non se ne vedono da un sacco di tempo, fatto di passaggi umani, eventuali errori di battitura, disegni sbiaditi e rischio di improperi dietro l’angolo, nel processo di installazione.
Forse, tra qualche decennio, qualcuno aprirà una vecchia copia cache di www.aranzulla.it in un museo del web, e chiederà a una IA di spiegargliela. La risposta sarà perfetta. Ma qualcosa sarà andato perso per sempre.