ARTICOLO n. 96 / 2025
IMMAGINI MESCHINE, IMMAGINI ARTIFICIALI?
In un saggio del 1965, lo scrittore Elias Canetti affronta il tema del Realismo e nuova realtà. All’inizio, la riflessione sembra concentrarsi attorno a una domanda meramente letteraria, molto distante dalle discussioni contemporanee sull’impatto delle nuove tecnologie: come conferire una “realtà piena” al romanzo? Quale tecniche adottare, quali strumenti rispetto agli scrittori veristi del XIX secolo, che erano stati capaci di tentare in una discesa totale nella realtà, di cogliere tutto quello che dovevano? Chi potrebbe oggi osare la stessa impresa? È a questo punto che inizia però ad affiorare qualcosa di più ampio, ovvero la questione di una doppia sopraffazione, proveniente tanto dal passato quanto dal futuro: ciò che pareva sopito riemerge con sempre maggiore insistenza, mentre le innovazioni si susseguono a un ritmo forsennato. Sembrerebbe, per Canetti, che in questo duplice eccesso la realtà si accresca smisuratamente; oggi c’è “troppo” e “molto di più”:
Il vecchio, il nuovo e il diverso confluiscono da ogni parte. Il vecchio: aumenta di continuo il numero delle civiltà del passato che vengono dissepolte; la storia e la preistoria vengono fatte risalire a tempi sempre più lontani. Un’arte remotissima, di enigmatica perfezione, ci ha tolto per sempre l’arroganza per la nostra arte. […] Il nuovo: ebbene, molti di noi sono nati prima che esistessero gli aeroplani, e ora, come se niente fosse, sono in volo per Vienna. Qualcuno dei più giovani tra noi, un giorno o l’altro, andrà sparato sulla Luna come turista, e magari si vergognerà, al suo ritorno, di pubblicare qualcosa su un evento così banale – proprio come io mi vergogno adesso di enumerare altre “innovazioni” della nostra epoca. Durante la mia infanzia erano eventi rarissimi, e ognuno veniva accolto come un miracolo (ricordo la mia prima luce elettrica e il mio primo colloquio telefonico), mentre oggi le innovazioni ci ronzano intorno a decine di migliaia, come zanzare. (La coscienza delle parole)
Questo ronzare delle innovazioni, questa nuvolaglia di immagini dissepolte dal passato o continuamente rigenerate, è diventato il rumore di fondo della contemporaneità. «In quale momento si è iniziato a modellare le persone come fossero rumore, o particelle sociali sospese, bombardate da forze browniane caotiche e impietosamente strattonate di qua e di là?» è invece la domanda che pone l’artista Hito Steyerl nel suo ultimo, importante saggio Medium hot, che già dal nome misura la temperatura del dibattito sulla questione delle immagini del tempo dell’IA; un libro realizzato per richiamare l’attenzione sulla minaccia che le immagini generate pongono tanto in termini di distruzione del pianeta (l’impatto sul riscaldamento globale, i rapporti neo-coloniali, l’espropriazione e sfruttamento scellerato di risorse per mantenere operative le nuove infrastrutture tecnologiche) quanto sulla questione dell’immaginario stesso, messo in pericolo per Steyerl da una crescente autonomia delle macchine e dal sempre più diffuso “conformismo statistico”. Per l’autrice, da una parte le IA costituiscono temibili strumenti bellici, godendo del riarmo e degli scenari guerrafondai, annodando insieme la triade sorveglianza, marketing e guerra; dall’altra disarmano l’immaginazione, la sopraffanno con una quantità di materiale che sfora il tempo effettivo, lo spoglia di ogni significazione, come nell’esempio dei video caricati su Youtube nel 2023: più 500 minuti di video al secondo – «una quantità di più di 30 mila volte superiore al tempo effettivamente trascorso. Circa tre secoli di contenuti caricati arriverebbero a coprire l’intero arco temporale dalla nascita dell’Homo sapiens. Il tempo della piattaforma dunque diventa una faccenda laboriosa e in super slow motion, immediatamente oberato dalla scala della sua stessa datificazione: un interminabile e stagnante pantano del vicino passato, una pozza di dati stantii». Nell’agitare la propria critica ai nuovi paesaggi tecnologici, Steyerl si impantana però a sua volta in un vocabolario stagnante, che risente di una visione unicamente sconsolata; eccetto che nelle ventuno ricchissime mappe finali che chiudono il libro, c’è una risolutezza radicale nel dichiararsi fuori dall’ubriacatura tecnoentusiasta. È chiaro che molti punti della sua critica al capitalismo tecnologico siano giusti, ma -come sempre più di frequente accade con opere di questo tenore- tale giustezza diventa ben presto una formula di agio, un percorso a tesi che parla della macchina per dimostrarne solo la sua assurdità, e nel farlo gli accorda via via uno statuto univoco, un gigantismo dal quale si può solo fuggire o venire travolti. Nei vari esempi di impiego che si trovano nel libro, Steyerl non concede quasi nessun rispetto alle IA, eppure le tratta in maniere sempre rispettose, senza mai osare riscoprirle attraverso un maltrattamento, un bisticcio – quello che con Jon Ippolito e Valentina Tanni possiamo chiamare un deliberato misuse, ovvero un invito a smontare la tecnologia, ad «abusarla, personalizzarla, travisarla. Le finalità possono essere espressive, ludiche e politiche. In qualche caso, è lo stesso concetto di scopo a venire meno, rigettando così l’idea che la tecnologia serva sempre e solo a risolvere problemi» (Antimacchine).
In un capitolo del libro, Steyerl chiede a Stable Diffusion, un modello di intelligenza artificiale generativa, di produrre un suo ritratto; ciò che ne viene fuori è per l’autrice una rappresentazione meschina (mean) e degradante (demeaning), razzializzata e mediocre, da cestinare. Quando descrive il ritratto ottenuto con un tentativo, Steyerl finisce per moralizzarlo, e parla quasi come se si trattasse di un’immagine “universale” che il modello genera per tutti e una volta per tutte – e non invece un risultato provvisorio che dipende dal rumore iniziale e dal seme stocastico (seed) che l’algoritmo usa. Ci vede, a ragione, un filtro sociale: «un’approssimazione di come la società, filtrata attraverso la media della spazzatura che è finita su internet, mi vede»; non osa però, neanche per istante, cedere al filtro, restituire una qualche dignità a questo ciarpame, ovvero permettere alla sua riflessione di degradarsi (scendere di grado) sino a quella spazzatura, a quell’ammasso caotico di immagini generate che per Steyerl sono fuffa e che invece trattengono, per chi sa soffermarsi su di esse, quel carattere di conoscenza accidentale che una volta Didi-Huberman descrisse così, pensando a un altro ciarpame capitalistico – quello del mercato di Piazza Navona:
Un disordine festivo e figurativo, un ciarpame […], una kermesse d’immagini. Poco importa che queste immagini, una volta prese in mano e osservate da vicino, si rivelino così «misere» (grossolanità dell’imitazione, leggerezza della plastica, bruttura delle tinte). La loro munificenza è data dalla loro agglutinazione, dal loro numero incalcolabile, dal loro ammasso, dalla loro sovrabbondanza, che – sotto le ghirlande multicolori, le palline di Natale e i campanellini dorati – le rende simili ad altari barocchi. (La conoscenza accidentale)
Immagini festanti e infestanti, filtri, mish-mash: cosa hanno da dirci, al di là della loro ingiustizia, della loro giustezza? Steyerl, come molti altri, è troppo occupata a esibire un disprezzo verso la spazzatura di Internet per concedersi un mischiamento; vorrebbe anzi ripulire l’immaginario, tornare indietro, esercitare «un atto di entropia negativa, recuperare magicamente l’energia scialacquata», pensare a come fare perché tutto ciò possa risolversi. È proprio qui che questa igiene del ragionamento fa sì che la sua scrittura tradisca un’ossessione per quelli che potremmo definire valori spettrali (fedeltà, verità, riconoscibilità, pulizia, origine), tanto da portarla a ideare questi scritti come «capsule del tempo per gli storici del futuro, che a un certo punto si troveranno a chiedersi: che cosa pensava la gente quando tutto questo ha avuto inizio? Come hanno affrontato la minaccia della propria zombificazione: essere resi obsoleti o trasformati in non-morti da strumenti che promulgano il conformismo statistico?». Queste poche righe potrebbero essere campionate come esempi di un apocalittismo che non cerca smentite, inseguendo piuttosto una certa puntualità del disastro. In questi scenari, il disastro (zombificazione, obsolescenza, fine dell’umanità, via dicendo) è talmente invocato che l’autrice s’impegna, s’indebita con esso, fa un investimento immaginativo: dopo aver scritto tutto ciò, un disastro dovrà certamente arrivare – a meno che non lo fermiamo, o che non ne arrivi uno peggio. Il punto è rimanere fedeli a questa puntualità, che si rafforza anche nella smentita (è la tesi di un libro oramai classico degli anni cinquanta, Quando la profezia non si avvera).
Chiariamolo: quando Steyerl usa la spettralità come una lente per interpretare la produttività umana espropriata e rimossa nell’ambito delle IA, la sua analisi è sorprendente; la miriade di micro-lavoratori anonimi -spesso sottopagati, invisibili, distribuiti globalmente- vengono visti nel libro come infestazioni, tracce fantasmali che la macchina rivela involontariamente: «la magia apparentemente non mediata delle immagini che emanano spontaneamente da un cumulo di dati si poggia su una profonda dinamica di sfruttamento ed espropriazione a livello della produttività. Forse le presunte emanazioni fantasmatiche delle facce nei rendering statistici sono in realtà ritratti dei micro-lavoratori nascosti, che infestano e pervadono le “mean image”». La generosità interpretativa che qui Steyerl concede alle immagini generate ricapita raramente nel resto del libro, più focalizzato a segnalare lo schianto prossimo-venturo, il momento in cui la fine ha avuto inizio. Ma è davvero così? Quando è scattato, questo cominciamento? Quando possiamo marcare con certezza l’avvento delle intelligenze artificiali? Siamo per forza obbligati alla zombificazione?
Il ricercatore André Ourednik, in Robopoiesi, suggerisce di affrontare tali interrogativi con una diversa angolazione, proprio a partire da una immagine che abbiamo già evocato – quella di un ronzare del contemporaneo:
Se provassimo a percepire il nostro secolo con l’udito, sentiremmo un ronzio assordante composto dal ticchettio di cento miliardi di dita su dieci miliardi di touchscreen; il picchiettare delle unghie, la debole frizione delle dita umide che si staccano dallo schermo. Sentiremmo questi rumori di sfregamento attraverso i social network, intervallati da esplosioni vicine e lontane, dal rombo di foreste in fiamme, dalle acque dei fiumi straripati e dallo scricchiolio delle banchise. E in queste basse frequenze percepiremmo i server informatici sforzarsi di intonare la sillaba sacra om negli antri di caverne di dati o nei datacenter sotterranei. A un primo ascolto, una simile sinfonia del secolo suonerebbe cacofonica e disordinata. Ma sono ormai vent’anni che la ascoltiamo, e due temi musicali cominciano a distinguersi chiaramente: quello della degradazione dell’ambiente naturale e quello dell’emergere delle intelligenze artificiali. Se tutto andrà male, questi due processi culmineranno in un disastro stereofonico. […] Ma non siamo certo obbligati ad arrivare a questo punto.
Non siamo obbligati ad arrivare a questo punto. Se lo scenario descritto all’inizio appare ugualmente apocalittico, Ourednik infrange l’impegnativa, il bollettino certo della catastrofe, e si muove in un’altra direzione, avvertendo, nel mantra digitale, non tanto il segnale di un disastro obbligatorio ma qualcosa di diverso: una riapertura dei possibili, l’irruzione di ulteriori ramificazioni in una genealogia lunga quanta la storia dell’animale umano e piuttosto intricata, che vede il linguaggio stesso come una forma di intelligenza artificiale. Non c’è dunque un vero cominciamento dell’artificialità, ma un costante dimorare in questa natura sempre artificiale, sempre tradotta: «dobbiamo accertarci che il ciclo delle interpretazioni non si fermi; che la traduzione della natura continui». L’esercizio, lontano dall’attitudine preservativa, è quella di evitare il noise cancelling, la modalità (anche intellettuale) di cancellazione del rumore, per immergersi in un altro tipo di esplorazione, implicata in quel ronzare – curiosa di esso. Concedendo alle intelligenze artificiali di mostrarsi in maniera non puntuale, Ourednik può arrivare ad affermare che la robopoiesi, la capacità poietica delle macchine, emerga proprio «dall’impensato», nel momento in cui lo scopo prestabilito subisce un deragliamento, e slarga così il campo delle applicazioni, formando nuove relazioni, intelligenze, modi d’uso.
Se anche, come sostiene Steyerl, le immagini sono oggi partorite da un crescente conformismo statistico, non conformista deve essere la via d’approccio, l’ermeneutica in cui intrattenersi: «sono io il responsabile dell’interpretazione dell’immagine generata […], proprio come l’interprete dei tarocchi legge una serie di carte come destino» (Robopoiesi). Tale attitudine invita a ripensare interamente la propria postura di fronte alle immagini, non solo quelle generate ma anche quelle che ci vengono incontro: ogni accidente algoritmico (pensiamo allo scorrere giornaliero dei vari “feed”) può essere rivendicato, senza risentire del fatalismo ma domandando cosa quelle immagini in successione dicono di me, delle mie abitudini, delle mie passioni e delle aberrazioni, delle geografie e delle trascuratezze, in una pratica che mette insieme “amor fati”, discriminazione attiva, immagini taroccate, tarocchi e nuova bibliomanzia (perché anche la divinazione migra sempre di tecnologia in tecnologia). Quando non filtrato dalla lente esclusiva dei valori spettrali, il feed smette di essere un nastro trasportatore di contenuti e diventa un raccoglitore di pulsioni, micro-scelte, residui visivi, in cui la tua traiettoria individuale si annoda a quella di milioni di sconosciuti. Come mi pongo di fronte a quanto mi viene addosso, ai fantasmi del passato, alle eredità, alle reinvenzioni, al portato di una magnitudine che mi traversa, m’infesta, in cui sono accasato senza tuttavia appartenervi interamente? Davvero l’unica soluzione è subire l’infestazione, o fuggirla? C’è un’altra via: contro-effettuare il proprio feed (il proprio campo di accidenti quotidiani), sapere prendere in consegna quella magnitudine immaginativa con un’attitudine capiente e generosa anche verso le immagini degradate – che comunque sono il risultato di un’epopea collettiva, per quanto sgangherata. Come ennesimi coinquilini spettrali, le mean images sono qui con noi, e non se ne andranno; in altre parole: occorre diventare degni persino della nostra meschinità.
No: non potranno più esserci più badanti che portano fuori la spazzatura per noi, neanche quella immaginativa; non c’è un fuori a cui tendere con candore. Un’etica della mondanità è un’etica di convivenza (critica e prodiga insieme) con tutto l’acciacco del mondo – un’etica per questo sempre da riformulare, da ricartografare nell’impatto con le faccende terrestri. Charles Baudelaire, parlando della sua modernité -di ogni modernità- ci metteva in guardia: «Questo elemento transitorio, fugace, le cui metamorfosi sono così frequenti, non avete il diritto di disprezzarlo né di farne a meno». Oggi come allora, non possiamo sottrarci; responsabilizzando questo contatto quotidiano, stando con il problema, ne vien fuori anche una specie di metodo: non farsi scrupoli nell’indagare il ciarpame e il “rumore” che abbiamo collettivamente prodotto, adottando comunque una certa scrupolosità nell’indagine, un rigore -stranamente generoso (eerily)- nei riguardi delle immagini, delle relazioni (e dei poteri) implicati. Ciò significa anche impiegare, verso le intelligenze artificiali, un tipo di intelligenza non sconsolata – scegliere quali narrazioni possono essere più efficaci. Scrive Ourednik in Robopoiesi:
L’intelligenza non va intesa come una qualità intrinseca a un sistema, ma come una qualità relazionale tra i sistemi e i loro interlocutori. Una macchina è intelligente se viene percepita come tale. Ciò significa che il contratto relazionale stabilito tra gli esseri umani e un’intelligenza artificiale è una componente intrinseca di quest’intelligenza. In altre parole, le efficaci narrazioni sulle intelligenze artificiali contribuiscono in modo essenziale a renderle intelligenti.
La critica alle immagini degradanti e alle IA di Medium Hot difficilmente accetta di farsi narrazione efficace, eccetto che nell’esercizio finale di worldbuilding (fatto non a caso con Gpt-3), in cui vediamo emergere invece quello spazio per l’impensato che Ourednik evoca. Relazionandoci in maniera intelligente con la macchina, arriviamo invece a comprendere che «gli straordinari traguardi tecnici raggiunti dalla nostra civiltà dipendono interamente dall’artificio di una intelligenza collettiva». La robopoiesi è cioè necessariamente anche una simbiopoiesi: emerge da interazioni, cooperazioni, simbiosi, ecologie di sistemi. Narrazioni. Questo confronto continuo con le IA ci spinge a interrogare la questione dell’intelligenza stessa: le sue proprietà, i suoi confini. «Ho iniziato a sentire che, man mano che sempre più persone avrebbero iniziato a interagire con questi modelli, ciò avrebbe innescato uno spostamento sismico nel nostro modo di capire che cosa sia davvero l’intelligenza — e un dibattito acceso». Così si esprime Blaise Agüera y Arcas, ricercatore statunitense nel campo dell’intelligenza artificiale e autore di un libro pubblicato dal MIT e ancora non tradotto in Italia: What Is Intelligence? Lessons from AI about Evolution, Computing, and Minds.
A differenza di Ourednik, Agüera y Arcas adotta una posizione apertamente funzionalista; e tuttavia la sua scrittura non indulge in una monomania riduzionista. Al contrario, dissesta continuamente sé stessa, si dilata in una ricognizione ampia della storia dell’evoluzione, con l’intento di dissolvere l’idea di un dislivello invalicabile tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale. In questa sorta di archeologia computazionale dell’esistenza («poiché le funzioni possono essere espresse in termini computazionali, potremmo perfino dire che la vita è codice»), Agüera y Arcas è meno interessato a impartirci lezione sull’IA quanto a chiedersi cosa l’IA ha da mostrarci rispetto alle nostre categorie logore, e ai nostri categorici rifiuti immaginativi. Per lui, radicalmente, l’intelligenza, prima ancora di essere una prerogativa umana o biologica, è un fenomeno evolutivo continuo, senza una discontinuità marcata tra “biologico” e “artificiale”; tutto è soggetto all’evoluzione – nulla è escluso dall’epopea combinatoria della variazione, della persistenza, della trasformazione. Moltiplicando le domande, innamorandole e innestandole una sull’altra, egli arriva a recuperare il ciarpame di quella che Darwin stesso liquidava come una interrogazione mal posta; nel 1863, Darwin scriveva infatti al suo amico Joseph Dalton Hooker che «è pura spazzatura, allo stato attuale, mettersi a pensare all’origine della vita; sarebbe come pensare all’origine della materia». Perché? Perché immaginare un singolo punto d’avvio tradisce un pregiudizio monogenetico, la fantasia di una genealogia unica. La vita, suggerisce Agüera y Arcas riattualizzando quella reticenza darwiniana, potrebbe non aver avuto un’origine sola, ma essersi tessuta da sé a partire da molti filamenti separati: un intreccio di processi eterogenei, di combinazioni parallele che solo retrospettivamente -e per valore spettrale- chiamiamo “origine”. Per questo «l’evoluzione classica non è sbagliata; semplicemente, tralascia metà della storia – quella più rapida, più creativa. Si potrebbe dire che l’altra metà dell’evoluzione è la rivoluzione, e che le rivoluzioni avvengono attraverso la simbiosi. In modo suggestivo, lo stesso vale per la tecnologia».
Prediamo, a tal proposito, l’invenzione nel Paleolitico della lancia dotata di un’impugnatura: attraverso l’unione di tre elementi (una punta di pietra, un’asta e un tendine per legarli), essa si dà come un salto simbiogenetico nell’ingegneria umana; allo stesso modo, il microprocessore è oggi formato da una combinazione di molti componenti distinti tra loro, così come l’essere umano stesso potrebbe essere considerato, secondo Agüera y Arcas, come una sorta di complessa colonia di batteri e archea che hanno subito una cascata di fusioni simbiotiche: «l’emergere della tecnologia, e la relazione reciprocamente benefica -per quanto talvolta tesa- tra esseri umani e tecnologie, non è niente di più né di meno della nostra più recente grande transizione evolutiva. La tecnologia, dunque, non è qualcosa di distinto dalla natura o dalla biologia, ma semplicemente il loro più recente sviluppo evolutivo». Così, in questo essere reciprocamente implicati, gli esseri umani e i loro strumenti formano un sistema simbiotico in continua crescita. Dal libro strabordano però altre questioni fondamentali, perplessità e rinegoziazioni sulla definizione stessa di vita, che Blaise Agüera y Arcas attraversa come un’ecologia di funzioni mai ridotta alle singole cose. «Se la vita è computazionale, allora i computer progettati dagli esseri umani (cioè “artificiali”) sono vivi»? È viva una foresta? È vivente il pianeta stesso? Incontrando nel territorio pericolante della speculazione pensatori come Jane Bennet, e superando la retorica illuminista contro il vitalismo, l’autore ci chiede di dubitare delle tassonomie riconosciute, adottando «una concezione più inclusiva dell’animato» che sappia riprendere in considerazioni anche visioni “pre-scientifiche”. Proprio su questo tema incontriamo una delle pagine più belle del volume:
E cosa dire di quel vecchissimo materiale inanimato – rocce e fiumi, montagne e spiagge, nuvole e tempeste? Le singole molecole d’acqua, prese da sole, non sono certo in grado di eseguire calcoli generali. Eppure, nel contesto del ciclo idrologico, nuvole, temporali e fiumi svolgono funzioni ecologiche critiche, e sono profondamente modellati dalla vita. Allo stesso modo, i metalli e le sabbie del pianeta vengono trasformati in motrici a vapore e in chip dei computer, così come il calcio che ingeriamo diventa ossa e correnti ioniche. Tutti questi materiali e strutture costituiscono parti di una vasta rete di interdipendenze gaiane. Perché tracciamo confini attorno a certi insiemi di funzioni e insistiamo nel dire che sono “vivi”, mentre affermiamo che quelle circostanti non lo sono?
Queste domande nascono non a discapito, ma attraverso le interrogazioni che oggi IA e nuove tecnologie ci pongono davanti; nel dare ascolto al loro ronzare, nell’evitare il noise cancelling, nell’immergersi – con rigore e generosità – in un’atmosfera insieme vibrante e inevitabilmente meschina, tanto Blaise Agüera y Arcas quanto Ourednik producono modi avventurosi di relazionarci al nostro tempo, invece che subirlo. Un tempo che, per riprendere Baudelaire, non ci è più permesso di disprezzare.