ARTICOLO n. 39 / 2025

IL NOSTRO GLABRO CAOS

corpi moderni

In due giorni ho acquistato un glutatione liposomiale spray per me e uno per mio padre; un barattolo di capsule di Reishi per me e un Chaga per mia madre; un integratore di L-teanina, astaxantina e centella dieci compresse ventinovevirgolacinque euro… Perché scrivo questo? Non sto forse recensendo una mostra su Venezia nel Rinascimento?

Da ragazza, nella mia mente di young girl squattrinata ma turbocapitalista, per anni immaginai la società divisa in due emisferi. Il primo era abitato da donne il cui corpo sembrava una meravigliosa macchina autosufficiente e perfettamente funzionante; il secondo, da donne il cui corpo somigliava a un carretto trainato da un mulo anziano (la mia metà, ça va sans dire). Gli uomini non rientravano nella visione.

Nel primo cielo risiedevano le magre naturali, che mangiavano poco non per virtù ma per distrazione — equitazione, apnea o altre occupazioni. Capelli folti e lucenti, pelle un po’ spenta, sì, e talvolta un lieve scompenso psichiatrico gestito con lo yoga, ma VES e Proteina C reattiva sempre impeccabili.

Nell’altro cielo, il caos. La lozione eterna di Minoxidil contro l’alopecia. Le fiale in endovena per ricostituire il ferro. Il calcolo trimestrale del TSH, perché la tiroide interferisce sempre ma non esplode mai. L’agopuntura per le chiazze atopiche sulla pelle. Impara a deglutire correttamente. Impara a respirare correttamente. Ginnastica correttiva. A dieta dal menarca. Eliminato il glutine, il lattosio — si fa per dire. La donna-carretto, quella “infiammata”, secondo dietologa, immunologo, ginecologa, medico olistico, dentista, dermatologa, ematologo, internista.

Poi crebbi, mi guardai intorno, e compresi che le vite di tutte erano un turbinio di lutti, tumori, crisi finanziarie, vacanze, malattie terminali, divorzi, episodi di violenza più singolari; che le “infiammate” erano, in verità, le “sensibili”; e che ogni autarchica cercava un’amica infiammata per provare a sentire qualcosa. Così i due emisferi smisero di apparirmi netti… Ma un dubbio rimane sempre. 

Se qualcuno pronuncia le parole “corpo moderno”, io penso esattamente a questo: a tutti gli scontrini e le fatture accumulati, in entrambi gli emisferi, nel tentativo di gestire quel caos glabro. Per fortuna, una mostra riesce a mettere un punto alla tragedia confusa del corpo difficile e medicalizzato nell’era postcapitalista, in cui la gestione del farmaco da parte del sistema sanitario nazionale somiglia sempre più a un’esperienza da Sephora durante il Black Friday.

A Venezia il corpo torna ideale, paragonabile alle più dorate architetture, e al tempo stesso allegro nella propria prossimità alla morte.

Le Gallerie dell’Accademia di Venezia presentano la mostra Corpi moderni. La costruzione del corpo nella Venezia del Rinascimento. Leonardo, Michelangelo, Dürer, Giorgione, a cura di Guido Beltramini, Francesca Borgo e Giulio Manieri Elia.

L’obiettivo è porre l’accento sul momento storico in cui il corpo cominciò a rivelarsi alla società nella sua natura trina: costruzione culturale, oggetto di studio scientifico, mezzo espressivo dell’individuo. Uno dei grandi meriti dell’esposizione è proprio quello di non giungere fino al mio faldone di scontrini, né a Warhol o a Kim Kardashian, ma di fermarsi sul punto d’origine, quando tutto è cominciato. Un lavoro meticoloso di selezione, con prestiti nazionali e internazionali di particolare rilievo.

Il catalogo della mostra, edito da Marsilio, raccoglie numerosi saggi brevi — per lo più a firma di una nuova generazione di storici dell’arte — capaci di conquistare anche il lettore non specialista con aneddoti, ambientazioni e una prosa vivace. Si parla di donzelle (vive) che dormono nelle proprie future bare, di protochirurgia, di interazioni tra eros e meteorologia, di self-fashioning e cuffiette.

Corpi moderni si articola in tre capitoli: Anatomia, Desiderio, Persona. E con buona pace di Leonardo, è Dürer a rivelarsi l’eroe più vicino alla nostra sensibilità. Spicca, in particolare, un Autoritratto da malato (1506-1511) proveniente dalla Kunsthalle di Brema: l’artista, nudo, indica con un dito il fianco opposto, incorniciato da una macchia gialla, e annota in tedesco: «Là dove è la macchia gialla e dove punta il dito, lì mi fa male». Dürer si mostra muscoloso, vigile, e poiché tiene con compostezza l’altra mano dietro la schiena, sembra aver studiato una posa atta a trasmettere equilibrio e bellezza. È il primo autoritratto da nudo di un artista e bisognerà attendere secoli perché qualcuno torni a cimentarsi in un’operazione simile. Lo storico Andrea Beyer ipotizza che stia indicando la milza, sede tradizionale della melanconia: potrebbe trattarsi di un appunto visivo per spiegare a un medico, magari lontano, la natura del dolore. Il tempo di un attimo ed ecco emergere in me il desiderio che veramente la melanconia sia ancora là, a disposizione di un’ecografia.

Conclusa la visita alla mostra, il capitolo dedicato al Desiderio, seppur magnifico, è risultato alla mia coscienza meno necessario degli altri. Sin dall’infanzia, infatti, riconosciamo l’erotismo come parte integrante del nostro patrimonio culturale. Qualsiasi liceale diciassettenne italiano, purché non completamente brocco, saprebbe argomentare con disinvoltura sulla celebre mano di Plutone ficcata nella coscia di Proserpina nel gruppo del Bernini; o distinguere, nel celebre dipinto di Tiziano, l’Amor profano dall’Amor sacro; o ancora cogliere la precisa intenzione nel gesto della Venere di Dresda, che poggia la mano “proprio lì”. Non ci si pensa abbastanza, ma il fatto che dieci lezioni sulla posizione dei transetti siano dimenticate entro i diciotto anni mentre i perché del revival di pancette durante il Neoclassicismo rimanga impresso a vita, in qualche modo plasma la nostra costruzione culturale sul corpo. L’arte ne ha parte; e se vacilla nell’illuminare le coscienze intorno a pensieri di pace e giustizia, consolida considerazioni su adipe e muscolatura nella storia. Per questo un Manichino anatomico femminile datato tra il XVII e XVIII secolo e proveniente dalla Biblioteca dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, così come un rilievo metrologico dell’Ashmolean Museum di Oxford datato tra il 460 e 440 a.C e rappresentate un torso a braccia aperte, mi donano maggiore ampiezza di pensiero, mostrandomi il corpo fuori dalla narrativa del desiderio e in un certo senso della vita stessa.

Esco dalle Gallerie con il biglietto piegato in tasca, stretto fra lo scontrino dell’astaxantina e quello del vaporizzatore di glutatione: un corpus di carta che non vale proprio quanto una tavola anatomica rinascimentale. Fa sorridere pensare che, alla fine, né il mio spray né l’Autoritratto di Dürer smontano davvero il mistero: entrambi si limitano a incorniciarlo con grazia. Forse è questo il privilegio dei “corpi moderni”: non guarire, ma negoziare con l’enigma— sempre con una certa eleganza disperata cui non resta che brindare (magari con un idrolato depurativo).

ARTICOLO n. 38 / 2025