ARTICOLO n. 78 / 2025

IL GIUBILEO BRITPOP

OASIS LIVE 2025

Wonderwall warrior è un’espressione che ha preso piede sui social quando, il 31 agosto 2024, alle ore 9:00 BST (come dimenticare?) ha avuto inizio la Ticketmaster war per il tour Oasis Live ‘25. Quando, cioè, molti di quelli che hanno visto gli Oasis nascere, diventare i baronetti del Britpop e morire si sono visti soffiare il loro biglietto da ragazzini e ragazzine della GenZ che hanno conosciuto Wonderwall per la prima volta come audio in trend su TikTok. 

Ho tutte le carte in regola per essere una Wonderwall warrior anch’io. Sono nata nel settembre del 1996. Nell’agosto del 2009, mentre Liam Gallagher, nel backstage del Rock en Seine a Parigi, distruggeva la Gibson ES-355 del fratello e gli tirava addosso una prugna, non avevo ancora compiuto tredici anni. Mio fratello, invece, ne aveva già compiuti trenta. Quando ero bambina, ogni estate, mio fratello comprava un CD vergine e ci masterizzava sopra di tutto con Nero. Mio fratello era troppo grande per venire in vacanza con i nostri genitori; al suo posto, come simulacro, mi lasciava un CD. Sopra ci scriveva il titolo con uno Staedtler Lumocolor nero: modello della macchina, edizione, anno. Per esempio, in Twingo Wave 2.0 2006 c’erano un bel po’ di canzoni degli Oasis e, anche se mia madre voleva ascoltare Roberto Murolo e mio padre la colonna sonora di Mediterraneo o le ultime notizie sul traffico, io li costringevo ad ascoltare il CD che mio fratello aveva masterizzato per me. In loop. 

Per una media annuale di duemila chilometri. Qualche anno più tardi, niente più CD. Ero diventata un po’ più grande, avevo un accesso a internet e, su YouTube, mi andavo a cercare le canzoni degli Oasis con il testo e le imparavo a memoria con una dedizione che raramente ho riservato a qualcos’altro nella vita. Queste sono le mie credenziali, Vostro Onore. Niente di più. Non so se potranno salvarmi di fronte alla severa giuria che vuole sempre decretare chi sia o meno degno di ascoltare un artista, un genere, a seconda di come si veste, dell’anno in cui è nato o dei genitali che si trova dentro le mutande. Quello che posso dire è che è vero che gli Oasis non sono stati la colonna sonora delle mie prime volte, ma hanno colmato il vuoto enorme lasciato dalla distanza generazionale, diciotto anni quasi tondi, tra me e mio fratello. 

Ironico pensare come i mancuniani Caino e Abele abbiano contribuito a legare due fratelli romani che, per la fase di vita in cui si trovavano, potevano condividere solo lo stesso cognome. Io e mio fratello, per tantissimo tempo, siamo stati figli unici. Io, però, un fratello lo desideravo tantissimo. Ho ascoltato gli Oasis per anni – e pronunciato irripetibili ingiurie contro la Lazio – per sentirmi più vicina a lui. Tornavo indietro nel tempo per rubare un po’ di quello che non avevamo potuto condividere insieme. Questo inciso malinconico non vuole dire che dietro ogni apparente Wonderwall warrior che incontri c’è un legame profondo con gli Oasis che tu non puoi conoscere, sii gentile, sempre.

Per me, potete continuare a odiare chi vi pare. Io, per esempio, odio tutti quelli che, dietro a questa simpaticissima trovata del Wonderwall warriorismo, celano goffamente un po’ della loro misoginia interiorizzata. Guarda caso, infatti, quelle accusate di essere Wonderwall warriors sono sempre donne, giovani, che all’uniforme con le Adidas di ordinanza aggiungono un paio di friendship bracelets e l’ultimo make-up in trend visto su TikTok. Le loro foto, i loro video del concerto, le loro storie sono ancora piene di commenti di maschi arrabbiati che scrivono: “This is who you lost your ticket to”. Cioè, ecco la persona per cui hai perso il tuo biglietto. Ma poi, tuo, a che titolo?

L’ha detto bene Anaïs Gallagher, la figlia di Noel, che, per la cronaca, ha qualche anno meno di me: «Scusate se una ragazza di 19 anni con un cappello da cowboy rosa vuole esserci, io avrò i miei braccialetti dell’amicizia pronti». È innegabile che una certa parte di maschi etero-cis stia ancora smaltendo la delusione della sconfitta nella Ticketmaster war. Non mio fratello. Non i suoi amici über-quarantenni. Prima di tutto perché non solo non l’hanno persa, ma l’hanno vinta anche per me (e a quale prezzo…). In secondo luogo, perché mai, neanche per un secondo, dal gate dell’aeroporto di Ciampino fino all’ultimo pub dopo il concerto, mi hanno fatto sentire come se non dovessi essere lì. Né loro, né la banda di mancuniani ubriachi che ha gridato e ballato insieme a noi per tutto il concerto. Anzi. Se io studiavo ancora le barbabietole da zucchero quando usciva per la prima volta Don’t Believe the Truth, mio fratello e i suoi amici hanno speso del tempo per raccontarmi dei concerti che hanno visto, delle foto che hanno scattato, delle pinte che hanno bevuto. Mi hanno raccomandato di stare attenta durante Cigarettes and Alcohol, perché volano bicchieri di carta, a volte pieni di birra, a volte pieni di urina. I bagni chimici sono spesso troppo lontani e perché qualcuno dovrebbe correre il rischio di perdersi Whatever con l’intermezzo di Octopus Garden?

Insomma, se durante il concerto arriva una doccia fredda, è tutto okay. Se arriva calda, è un problema, ma fino a un certo punto. Per la prima volta nella mia vita, mi sono trovata a dovermi porre un problema del genere. Dalle prime volte di mio fratello e gli altri – tutte, quelle da ricordare e quelle da dimenticare – sono passate un po’ di estati in più. Qualcuno ha comprato casa. Qualcuno è andato a vivere lontano. Qualcuno è diventato papà, come mio fratello. Del resto, Oasis Live ’25 è stato, e continuerà a essere, l’Eras Tour dei papà. Non ho mai visto in nessun’altra occasione così tanti maschi piangere come vitelli, tutti insieme. Ma abbiamo pianto tutti, per ragioni diverse. Chi li vedeva per la prima volta aveva la sensazione di trovarsi davanti un pezzo di storia. Chi li aveva già visti pensava che non ci sarebbe stata un’altra volta e non c’è niente che commuova di più delle seconde occasioni per ciò che credevamo finito per sempre, di un nuovo tempo ricevuto in dono.

Ed è stato biblical, inutile dirlo. Ma Heaton Park era anche casa mia. Era tornare a casa di Noel e Liam, soprattutto. C’era posto anche per me e per quelle come me. C’è posto per tutti, a dirla tutta, nell’anno magico del Giubileo del Britpop. Le vecchie generazioni non devono passare il testimone – o il tamburello – a quelle nuove. Basta condividerlo, e Manchester era il posto perfetto per farlo. In città, un mare infinito di bucket hat, scarpe Adidas, merchandise vecchio e nuovo. Tutta Manchester si è fatta a strisce, tre, come quelle dell’Adidas. E tutti i bucket hat, le felpe brillanti, le magliette da calcio con il colletto bianco e la scritta Gallagher ’25 sulla schiena oggi sono la bandiera che portiamo fieri, ovunque ci troviamo nel mondo. Ad agosto, a Roma, fa molto caldo, ma si approfitta di quei due temporali estivi per indossare la felpa. Per strada ci si guarda, ci si riconosce, ci si saluta con un cenno del capo. Io c’ero, o, magari, ci sarò. Io non ci sono stato, ma so che è stato bellissimo. Lasciare andare sembra impossibile. Per me, del resto, è stata una prima volta. Una di quelle da ricordare.

ARTICOLO n. 79 / 2025