ARTICOLO n. 93 / 2025

IL CORPO È ONESTO

Pubblichiamo un estratto da Non sono speciale, sono diverso (Il Saggiatore, traduzione di Marco Maria Casazza), il manifesto di libertà e creatività di Ulay scritto con Patricija Maličev in libreria da pochi giorni. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Non ce l’ho con il mio corpo, ma sono avvilito e demoralizzato. Non saprei come altro descriverlo. O cede il corpo, o cede la mente. Nel mio caso, inaspettatamente, ha ceduto prima il corpo. 

Non faccio più performance. La malattia limita la mia capacità di esibirmi, perché mi toglie forza e controllo sul corpo. Circa sei mesi fa questa schifezza ha preso il sopravvento, e da allora non ho più potuto performare come volevo. 

D’altra parte, non ho fatto performance per quasi vent’anni, nel periodo tra il 1980 e il 2000. Mi chiedevano spesso di fare performance e io rispondevo sempre: «Non sono ancora abbastanza vecchio». Non volevo compiere atti performativi estremi, come automutilazioni, collisioni, e così via. Volevo mostrare il processo dell’invecchiamento e dell’inabilità. Ovviamente, all’epoca erano tutte congetture.

Il corpo è onesto. Prima di qualunque anomalia, invia non uno, ma diversi segnali – io non li ho riconosciuti. Li ho ignorati o li ho fraintesi. Se il corpo ti segnala un’indigestione, magari fai qualcosa, prendi, che so, un’aspirina. Allora diventa difficile interpretare i segnali, ed ecco che ti ritrovi in uno studio medico ad affrontare la realtà che hai ignorato troppo a lungo. Oggi, sto come sto. Non ho rimpianti ma voglio andarmene serenamente.

Non ho dolori. Il linfoma non mi dà tanto fastidio. La prima volta, la malattia ha aggredito le mie cellule. Stavolta mi hanno semplicemente messo ko. Soffro più a livello dell’anima, della mente, delle emozioni. Nelle mie prime performance, che comportavano automutilazione, spregiudicatezza, autolesionismo e così via, il dolore era sottinteso, ma il fulcro dell’opera non era mai il dolore e l’opera non era mai dolorosa. 

Se hai il cuore spezzato puoi soffrire terribilmente, ma non provi dolore: è più metafisico. Mi infliggevo deliberatamente dolore fisico ma potevo sopportarlo, mi offrivo come oggetto per dare agli altri un’idea differente di me, una prospettiva diversa, per farli riflettere sui loro sentimenti: diventavo un tramite.

Provo dolore per il mondo. Credo sia stato questo a fare di me un artista. Provo quello che in tedesco viene definito Weltschmerz (dolore cosmico, pena o languore per il mondo). Ci sono ancora moltissimi motivi per soffrire di Weltschmerz. Se sei sensibile, ti ritrovi in una posizione particolare, perché se vuoi diventare qualcuno un giorno, non devi mai mostrare il tuo malessere esistenziale o resterai tagliato fuori. Weltschmerz non è solo dolore: è peggio del dolore, è un’ordalia, come il cancro, che non puoi ignorare. È un marchio d’infamia, uno stigma.

Una volta stavo girando delle scene in Sicilia con Marina e volevo provare la steadycam. L’imbracatura era enorme, pesava quasi quattordici chili. Feci una ripresa camminando, assicurandomi che l’inquadratura fosse fluida e senza stacchi. Eravamo soddisfatti e andammo a cena fuori insieme, in un sito archeologico molto importante dove c’era un anfiteatro. La cena era deliziosa. Bevemmo del vino. Quando fu il momento di pagare il conto, cercai di prendere il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, ma rimasi bloccato – una fitta terribile. Il mal di schiena causato dall’incidente in cui il mio amico aveva perso la vita era tornato di colpo a tormentarmi. Mi caricarono in macchina, mi portarono in albergo e mi trasportarono fino in camera. Il dolore era indescrivibile. Volevamo chiamare un dottore ma i medici dell’ospedale erano in sciopero e non riuscimmo a trovarlo. Poi qualcuno trovò uno chef che aveva fatto il paramedico, ma non esercitava da anni, che mi fece un’iniezione di morfina nella schiena ma nel punto

sbagliato. Il dolore addirittura peggiorò – grattavo il muro con le unghie. Poi, ovviamente, subentrò il panico. Presi un volo per Roma e poi per l’Olanda, dove mi portarono direttamente in ospedale. L’indomani un neurologo, un internista e un

chirurgo mi visitarono. Mi dissero che era un’ernia del disco e che l’unica cosa da fare era operare. La mia prima reazione fu «non se ne parla», ma non ci volle molto perché diventasse «okay». 

Rimasi in ospedale finché fui in grado di alzarmi dal letto e camminare. Quando potei finalmente muovermi, andai a casa. Avevamo una pedana di legno rialzata su cui potevo stendermi, molto dura e piatta. Dopo un po’ la schiena riprese a farmi male. Il mal di schiena mi ha accompagnato per gran parte della mia vita. Sempre nello stesso punto.

A sei anni mi hanno tolto le tonsille, a undici l’appendicite, ma non sono mai stato a lungo in ospedale. Quando quel terribile mal di schiena mi colpì nuovamente a Lubiana, andai diritto in clinica. Fu così improvviso che sembrava provocato da un trauma. Fecero subito una radiografia. Una schiacciatura faceva pressione sul nervo, provocando l’infiammazione. Il dottore guardò la radiografia e disse che, ernia del disco a parte, sembrava che avessi un inizio di arteriosclerosi.

Il mio corpo, nel corso degli anni, passo passo, un po’ alla volta – l’ho mandato a puttane. L’uomo che sono oggi saprebbe anche apprezzare il proprio corpo, ma ho fumato per quasi sessant’anni; ho fumato come una ciminiera e bevuto come una

spugna. Non ho avuto cura del mio corpo, eppure, allo stesso tempo, l’ho sfruttato al massimo. Ero molto forte – magro, ma anche molto forte. Penso che il mio corpo non dimostri la mia età. 

Solo la morte mi rende infelice. La ricomparsa del… è arrivato anche ai polmoni. Il cancro ti attacca dove sei più debole. Nel mio caso i polmoni sembrano a posto, ma pare ci sia un enfisema – significa che ho ossigeno a sufficienza, ma non riesco a espellere abbastanza rapidamente l’anidride carbonica.

La mia paura più grande era fare la fine di mio padre, ancora più invalido di quanto io sia adesso. Ho quasi settantaquattro anni, per cui ho già vissuto una decina d’anni più di lui, ma mi sta succedendo praticamente la stessa cosa. Non so come faccia un ragazzo che ha visto la sofferenza e la paura di suo padre a restare aggrappato a quell’esperienza tanto a lungo da arrivare a riprodurla dentro di sé. Non lo so.

La chemio – la chemioterapia tradizionale come quella a cui mi sono sottoposto nel 2011 e che sto facendo ora – è una bomba, una bomba che attacca le cellule umane, senza distinguere tra buone e cattive. Nel mio caso l’attacco è stato molto violento e mi ha reso invalido, ma mi ha aiutato a sentirmi meglio fisicamente e mentalmente. Non c’era tempo da perdere. 

Secondo la mia oncologa, la mia aspettativa di vita sarebbe stata dai quattro ai sei mesi se non avessi agito subito attraverso la chirurgia oncologica e la chemioterapia. La prima volta avevo energie sufficienti per girare un documentario a Lubiana, Amsterdam, Berlino e New York. Adesso invece le cellule cancerogene – che sono molto furbe – hanno intaccato i miei organi vitali. Sono davvero intelligenti, perché, anziché tornare là dove le abbiamo combattute e sconfitte l’ultima volta, hanno cambiato strategia. Dopo il secondo ciclo di chemioterapia sono diventato un altro. Lemie capacità mentali e motorie si sono sistematicamente indebolite. Non riuscivo a camminare, non riuscivo a parlare, ero sfinito. Riuscivo solo a fissare il vuoto davanti a me – come un cretino. Quindi grazie, Lena, per i giorni e le notti in cui ci sei stata, sempre.

E grazie anche a Janica, la madre di Lena, al piccolo Anouk, il figlio di Rosa, e agli amici che sono venuti a farmi compagnia, dandomi coraggio… Ma per rendere la vita più dolce bastava che mia moglie mettesse la sua mano nella mia e si stendesse al mio fianco. Ascoltavamo la musica. Le ho fatto promettere che

cercherà di essere felice, quando non ci sarò più… Sì.

Il 28 e 29 agosto ho fatto un check-up di due giorni all’istituto di Oncologia di Lubiana. Non riuscivo più a salire i gradini di casa. Due piani di scale, a cui non avevo mai dato gran peso, erano diventati il metro di ciò che il mio corpo poteva o

non poteva fare. Non riuscivo più a respirare normalmente. Mi lamentavo in continuazione, ostinatamente, con mia moglie e coi dottori. Finalmente mi hanno dato retta e mi hanno fatto una tac. Hanno scoperto una pleurite, l’infiammazione della membrana che avvolge i polmoni. L’infiammazione aveva provocato un versamento pleurico di oltre mezzo litro, ecco perché non riuscivo a respirare. Ce ne hanno messo a prendermi sul serio.

Non era per il fumo. Avevo dei polmoni relativamente puliti, per una persona che fumava da sessant’anni. Da due mesi facevo una chemio di Imbruvica, un farmaco usato per curare determinate forme di leucemia negli adulti. Da due mesi, tutte le mattine, buttavo giù quattro pillole. Il foglietto di controindicazioni del farmaco diceva, tra le altre cose, che se il paziente lamentava difficoltà respiratorie, il trattamento andava sospeso immediatamente. Il 29 agosto hanno scoperto che avevo del liquido nei polmoni. Con un ago hanno estratto quel fluido affascinante – un misto di acqua, sangue e una sostanza giallognola. 

Mi è sempre piaciuto vedere cosa esce dal mio corpo – che si tratti di fluidi o di tessuto. Quando hanno messo il contenitore con il fluido drenato su una sedia a rotelle accanto a me, ho tirato un sospiro di sollievo. Finalmente, potevo respirare.

Il giorno dopo, il mio oncologo di fiducia mi ha fatto iniziare una nuova chemioterapia a base di un farmaco chiamato MabThera. Avevano già provato a somministrarmi quel biofarmaco nel 2011 ma il mio corpo non lo aveva tollerato. Non l’ha tollerato neanche stavolta. Me lo hanno iniettato per endovena in dosi massicce – troppo massicce, credo. Sono rimasto a letto per un giorno e una notte con un tubo infilato in vena che pompava un veleno letale nel mio corpo, una medicina per salvarmi la vita.

Ma non è servito. Mi sentivo peggio di ora in ora. A un certo punto stavo così male che ho avuto bisogno della maschera a ossigeno. Poi ho perso conoscenza. Ho perso ogni senso dell’orientamento. Non riuscivo a seguire quello che il cervello cercava di dirmi. Non capivo quel che i dottori dicevano tra loro. Ho provato una sensazione intensa, singolare. Non era parte di me.

Mia moglie Lena e Rosa, sua figlia, erano lì, ma non mi ricordo di loro. Quando ho riaperto gli occhi ho avuto la sensazione di essere sopravvissuto a un evento terribile. Tutti noi conosciamo la magica parola trascendenza. La usiamo in vari contesti. Ma sappiamo davvero cosa significhi? La trasformazione è cambiamento. Ma cos’è la trascendenza? Mi emoziono quando ne parlo. I veri saggi sono persone che hanno dovuto sopportare grandi dolori e difficoltà per arrivare a capire se la vita vale la pena di essere vissuta. E se sì, come dovremmo viverla? 

C’è stato un periodo della mia vita in cui mi sono accorto chiaramente di conoscermi molto bene. Semplicemente, so come prendermi. Mi sono accorto che non avevo bisogno di frugare tra le pagine di giornali e riviste, cercare nei libri o stare davanti alla televisione o allo schermo di un computer, ho deciso di dedicarmi alla pace interiore. Nella pace interiore la voce trova il suo potere più grande. Ma il cambiamento di cui parlo mi è stato imposto quando ho perso conoscenza durante

la chemio. È arrivato in modo inaspettato. Non ero pronto ad affrontarlo.

So che ci sono momenti nella vita – nella vita di tutti – in cui qualcosa ti mette al tappeto. A volte sono batoste irreversibili. Qualcosa ti piomba addosso e non c’è modo di tornare indietro. Questa cosa irreversibile è ciò che ci «trascendentalizza» in una dimensione che si trova al di là di questa vita. Una dimensione più elevata. Se ero lì in quel momento, sono lì anche adesso.

Ho vissuto una pausa della vita. Non capita molto spesso. Sono andato dall’altra parte e sono tornato. Mi conosco da settantasei anni e non mi era mai capitato niente di così spaventoso. La trascendenza, con cui mi sono misurato tante volte negli anni settanta, perché andava di moda, è ciò che resta quando torni. È la rivincita della vita dopo un faccia a faccia con la morte. Non è credere nella vita: è rinunciare al controllo sulla vita.

Sto piangendo. E mi fa bene, mi fa proprio bene.

Lena era molto spaventata. Ero poco più che un vegetale. Non potevo camminare né parlare. Ha deciso di portarmi alla clinica in Austria e mi ha caricato sul fuoristrada. Era sicura che là i medici sarebbero riusciti a stabilizzare le mie condizioni. Così abbiamo viaggiato sul mio veicolo preferito, la Mercedes g55 che mi ero regalato per la vecchiaia, e sentivo nei reni ogni buca, ogni piccolo sobbalzo. 

Ero messo veramente male. Sono rimasto in clinica dieci giorni. Mi hanno stabilizzato, ma il mio corpo era ancora infermo. Alto come sono, pesavo sessanta chili scarsi – un peso in linea con la mia idea di ascetismo. Se mi sedevo sul water, per esempio, non riuscivo a rialzarmi senza l’aiuto di qualcuno. Non avevo più muscoli. Non avevo più niente. Una volta tornato a casa, la mia oncologa mi ha prescritto analisi del sangue a cadenza regolare presso la mia dottoressa di base per capire come si comportavano i miei globuli bianchi. Ma non ci sono mai andato. 

Ho spento il telefono e ignorato le email per più di un mese. Possiamo controllare le nostre attività, ma non la nostra vita. È giusto così. La vita supera sempre l’immaginazione. Nella nostra vita tutto è sempre troppo lineare, fin troppo controllato. L’inquadramento inizia a scuola, il resto lo fa la società: siamo ingranaggi di un sistema. Ma la vita non è lineare, per questo tanto vale rinunciare a pilotarla.

Quando ero giovane, avevo addominali così forti che se mi colpivano non sentivo nulla. Adesso mi fa male anche solo inspirare profondamente. Quando ti sottoponi deliberatamente al dolore è diverso, nessuno si fa davvero male. Farò un esempio: se guidi una Volkswagen scassata, e puoi comprarti una grossa Mercedes, è un cambiamento. È un miglioramento, un progresso. Nel mio caso, puntando a qualcosa di meglio, mi sono fatto un’idea più chiara di cosa è meglio per me. Se sei

convinto, davvero convinto, e compi un passo, non c’è dolore, ma gioia. Fai un passo nella direzione che ritieni tua. Credo di aver inflitto del dolore agli altri, questo sì. Alla mia prima moglie, alla seconda e alla terza. Sono stato irresponsabile, in un certo senso, persino crudele, ma non potevo rimanere. Sarei stato un cattivo compagno, un cattivo padre, e così, per evitare tutto questo, ho semplicemente cambiato direzione. Penso che le mie mogli non l’abbiano capito. Per capire bisogna saper cogliere più di quello che si riesce a vedere da fuori. A volte devi lasciarti le cose alle spalle, per liberarti.

La libertà è una cosa assurda. La maggior parte delle persone non sa come gestirla. Che ci fai con la libertà? Puoi andare in vacanza, che è un’apparenza di libertà. Ma io penso che ci voglia solidità, per essere liberi. Bisogna essere solidi, ma non stupidi. A volte la solidità ti aiuta a essere abbastanza distaccato da non essere stupido. Penso, anzi sono convinto, di non avere niente di cui pentirmi. Ero mentalmente ed emotivamente pronto a compiere dei passi avanti. Se lavori in un’azienda e ti danno una promozione, per molti è gratificante, ma in realtà è una trappola. Ti ritrovi intrappolato nella dipendenza, nella responsabilità. Io volevo essere libero nel senso più alto del termine – poter lavorare al meglio su me stesso per raggiungere o realizzare qualcosa. Penso che sia importante evolversi, raggiungere gli obiettivi che ti sei prefissato.

ARTICOLO n. 92 / 2025