ARTICOLO n. 69 / 2025
FINCHÉ VIVRÀ POESIA NEL CUORE DEGLI AMICI
Io ballo da sola trent’anni dopo
Dal tronco di una quercia che affonda le sue radici da centinaia di anni in questa terra collinare, senese si dipanano circolarmente nell’aria rami ritorti che via via si assottigliano prendendo direzioni opposte occupando l’aria circostante con migliaia di foglie verdi, una delle quali arriva a lambire l’acqua placida della piscina. La campagna tutto intorno riposa. Il silenzio è interrotto solo dal frinire incessante delle cicale e dallo sciabordio del volo rasente sull’acqua delle rondini che approfittano del riposo pomeridiano del mondo circostante per prendersi un po’ di refrigerio.
Il giardino della casa è grande e su tanti livelli, a tratti ordinato a tratti selvaggio, ricchissimo di diverse vegetazioni; ci sono gli orti, i pollai riconvertiti in aiuole di fiori spontanei, le siepi di cornioli e rosmarino. Sul grande gelso affianco alla meravigliosa costruzione rurale che ospita dagli anni Sessanta la famiglia Spender e noi ora in questo pomeriggio estivo infuocato, spunta una casa sull’albero, approdo sicuro per generazioni di bambini. Da ogni dove le stilizzate figure umane in terracotta fanno capolino tra la vegetazione, apparendo più endemiche qui delle pietre che formano il terreno. Custodi aggraziate dei segreti familiari, testimoni della vita che si è compiuta. Attorno gli uliveti degradano a perdita d’occhio separando la pace del luogo dal resto del mondo che qui intorno però sembra essere altrettanto placido e rassicurante.
Matthew Spender, autore delle sculture disseminate nella casa — Leitmotiv visivo e contrappunto del paesaggio e della scenografia del film — ispirò Bertolucci per uno dei personaggi chiave di Io ballo da sola. Non lo vediamo mai, ma sappiamo che si trova una delle stanze del piano superiore, forse una di quelle ad arco, da cui lo sguardo può spaziare sulle campagne fino a sembrare infinito. La sua presenza, pur invisibile, è fortissima e diffusa.
Conosciamo invece la moglie Maro, anch’essa artista, ancora saldamente alle redini del tanto fare che un luogo del genere richiama, e le loro figlie: Saskia, che da giovanissima fu assistente di produzione e regia sul film, e Cosima, che proprio da quell’esperienza, e dalla vicinanza con Bertolucci, ha poi fatto il suo mestiere.
Saranno proprio Cosima e Saskia ad accoglierci in questa esperienza con naturalezza, accompagnandoci dentro l’intimità del ricordo. C’è in loro una delicatezza che sembra provenire da una lunga consuetudine nel vivere tra arte e cinema, quasi come se fossero cresciute davvero dentro un film. Figlie e nipoti di artisti, abituate fin da bambine a una casa aperta, popolata da amici creativi e da una quotidianità fatta di bellezza condivisa, si sono trovate spesso accanto a Bernardo Bertolucci, che in Io ballo da sola finisce per mettere in scena anche qualcosa della loro vita familiare e della comunità affettiva che li circondava.
In questa giornata immersiva per il trentennale dell’uscita di Io ballo da sola in cui si sono ritrovati i protagonisti di allora — del film, ma anche della vita reale a cui Bertolucci si ispirava — riemerge il ricordo di quel gruppo di amici e della loro splendida casa, disseminata ovunque di sculture in pietra e terracotta e segnata da un gusto raffinato, mai ostentato. Una casa che racconta non solo lo stile, ma anche le scelte profonde di una generazione di inglesi colti artisti e appassionati d’Italia, che nel Sessantotto decisero di abbandonare le loro carriere nella City per approdare tra le colline senesi e dar vita a un cantiere culturale e umano fatto di costruzione lenta e portata avanti fino ad oggi: dei mobili, degli oggetti, dello spazio abitato, ma soprattutto delle relazioni. Un progetto di vita che includeva anche un’idea diversa di educazione per le figlie — lontana dalle competizioni, dai ruoli borghesi predefiniti — e che probabilmente voleva unire la spinta della rivoluzione sessantottina al principio fondante di molti artisti, ovvero che l’esperienza della bellezza sia necessaria, e vada cercata sempre, come orizzonte quotidiano lungo tutto il corso della vita. Ovviamente, potendoselo permettere.
Alla sera poi, in Piazza del Campo a Siena si è tenuta la proiezione del film alla presenza di molti dei protagonisti: un’occasione speciale, voluta da parenti e amici, guidati da Valentina Ricciardelli nipote del regista e presidentessa della Fondazione Bernardo Bertolucci, per rivivere insieme un pezzo di storia personale e collettiva. Un’occasione preziosa, per me che ero lì come osservatrice esterna, di vivere quel momento dall’interno.
A quell’invito hanno risposto in molti: protagonisti, collaboratori e semplici partecipanti dell’epoca, chiamati a raccolta non solo per celebrare il film, ma per ritrovarsi nel ricordo di ciò che fu quell’avventura condivisa, sospesa tra arte, estate e memoria. Dagli iconici Jeremy Irons e Sinéad Cusack, nel film rispettivamente un celebre scrittore inglese malato terminale accolto nella grande casa per passare i suoi ultimi giorni attorniato dalla bellezza; e la padrona di casa accogliente e ospitale che riesce a tenere insieme tutta la variegata comunità che si crea intorno. E poi i due “pretendenti” di Lucy-Liv Tyler interpretati da Ignazio Oliva e Roberto Zibetti visibilmente emozionati nel rivedersi giovani attori di belle speranze, nel rivivere anche la loro personale iniziazione, quella al cinema e all’arte.
E soprattutto Jeremy Thomas, il produttore e sodale di Bertolucci, colui che lo ha accompagnato nelle più grandi imprese internazionali, da L’ultimo Imperatore a Il piccolo Buddha, e che ha saputo capire quando il suo amico e partner cinematografico aveva bisogno di “tornare a casa” e affrontare storie e progetti più intimi e personali come Io ballo da sola.
Insieme a loro anch’io ho iniziato il mio viaggio personale attuale e a ritroso all’interno del film.
Nel 1996, Stealing Beauty la cui traduzione sarebbe “rubando bellezza” ma che in Italia esce per volere dello stesso Bertolucci con l’iconico titolo di Io ballo da sola, approda nelle sale come un’opera sospesa tra diario poetico e racconto di formazione. Un film che si muove sul confine tra corpo e paesaggio, tra luce e inquietudine, tra soggettività e mistero. Trent’anni dopo, questo film torna come oggetto critico, testimonianza estetica degli anni ’90 e banco di prova per le mutazioni dello sguardo contemporaneo.
Nel 1996 ero una ragazza. Una giovane donna all’inizio di tutto, affacciata sul mondo con lo stesso misto di paura, desiderio e incoscienza che si legge negli occhi di Liv Tyler in Io ballo da sola. Trent’anni dopo, guardo quel film da un altro crinale della vita: i quarant’anni sono ormai passati, un’età di transizione in cui i cerchi iniziano a chiudersi e si insinua silenziosa, l’idea della fine.
Il film è immerso in un immaginario preciso: la Toscana rurale, una comunità bohemien di artisti, scrittori, intellettuali e ospiti in cerca di guarigione o ispirazione. Il tempo è quello dell’estate, dello stare, dell’osservare. L’atmosfera è fatta di luci naturali, silenzi, corpi esposti alla luce, dialoghi minimi e folgoranti. Bertolucci firma una regia che non rincorre l’azione ma la contemplazione: Io ballo da sola è cinema della pelle, del paesaggio interiore e dei gesti sospesi.
La protagonista Lucy (interpretata da una giovane e bellissima Liv Tyler e scelta da Bertolucci anche per via della similitudine tra la sua storia familiare e quella della protagonista) è una diciannovenne americana che arriva in Toscana dopo il suicidio della madre poetessa, per trascorrere l’estate nella villa di amici di famiglia. Lucy è alla ricerca di due cose: il mistero su chi sia suo vero padre – suggerito nei diari lasciati dalla madre – e il ragazzo con cui aveva scambiato un bacio quattro anni prima.
I temi di questo film, che alla fine degli anni ’90 divenne subito un’opera di culto per tutte noi, sono numerosi, chiari e ben articolati nello svolgersi della trama, che si dipana dietro le tante apparizioni dei personaggi, anch’essi portatori di storie incentrate sulle relazioni umane. Storie fatte di balli, gesti, coreografie corporee intrecciate al paesaggio abbacinante della campagna senese, i cui colori appaiono ancora più accesi sulla copia in proiezione, dichiarando la necessità del restauro.
Sul fondo, il rumore vivo di una casa-palcoscenico, rifugio sentimentale, che accoglie chiunque sia pronto a confrontarsi con l’amore e i suoi tormenti. E dietro alle tante sculture di Matthew Spender, momentaneamente traslocate dalla vera dimora che ispirò il film, c’è l’eco di quella casa originaria, che ci ha ospitati in questa reunion del trentennale, specchio fedele della casa-location.
Il tema dell’essere orfana come condizione per crescere e come premessa per il desiderio: Lucy arriva in Toscana dopo la morte della madre, e con un padre sconosciuto. È l’archetipo dell’orfana, in senso simbolico, come condizione necessaria all’autonomia. Come scrive Hannah Arendt “Diventiamo veramente umani quando nasciamo di nuovo, cioè quando ci assumiamo la responsabilità della nostra esistenza.” Nel film, l’assenza materna e la paternità ignota non producono solo dolore, ma attivano il movimento, l’interrogazione, la ricerca. Lucy non eredita, cerca, non riceve, desidera e Il suo viaggio è verticale ovvero non si muove nello spazio (che rimane idilliaco ma sempre uguale a se stesso), ma dentro di sé.
Il tema del viaggio iniziatico e della scoperta tramite il corpo e il desiderio. Conosciamo Lucy in un momento di transizione, in cui il desiderio e la scoperta del proprio corpo diventano strumenti per conoscersi, per capire chi è e cosa vuole diventare. La sua iniziazione sessuale non è un semplice evento, ma una tappa in cui il corpo prende la parola, il desiderio diventa forza che trasforma, e l’erotismo riflette un’identità in costruzione. La perdita dell’innocenza come passaggio filosofico. Non c’è trauma, ma metamorfosi. Lucy perde l’innocenza nel senso più profondo: come consapevolezza della propria soggettività. Come nei più classici romanzi di formazione, Lucy attraversa la soglia. La villa toscana non è solo luogo fisico, ma spazio iniziatico.
Un altro fulcro centrale del film, e della gioia di rivederlo oggi è la colonna sonora, con sonorità e scelte musicali tipicamente anni ’90. Io ballo da sola è un film che si ascolta tanto quanto si guarda. Da Billie Holiday a Portishead, dai Cocteau Twins a Hooverphonic, da Liz Phair a Stevie Wonder.
E la musica, questa musica, apre prepotente anche alla nostalgia. Quella per il tempo in cui i CD che avevi nella tua stanza dicevano chi eri meglio di qualunque bio su Instagram. Quella per i pensieri di Lucy, scritti a penna sugli angoli di riviste e vecchi libri, strappati e poi bruciati nel fuoco delle candele che oggi, sarebbero al massimo salvati in bozze su Note o condivisi su WhatsApp.
E infine, nostalgia vera: quella per un’estate italiana senza zanzare tigre.
Il film oggi quindi mi parla di nuovo, ma con parole che allora non avevo. Il vocabolario che riconosco adesso è certamente più ricco, più sfaccettato, carico di sfumature e significati. In questa visione al termine di una giornata di re-incontri tra chi c’era, forse dolci, forse amari, comunque sicuramente intensi, in cui è naturale chiedersi se non potrebbe essere forse l’ultima occasione di incontro, mi accorgo di essere molto più capace di stare accanto anche alle storie dei personaggi secondari: ognuno in una fase diversa della vita, con le proprie fragilità, i propri desideri, le proprie dinamiche relazionali. Storie che allora mi sfioravano appena, e che oggi invece mi parlano con una vicinanza nuova. Perché inevitabilmente, con il tempo, si affievolisce quello sguardo spavaldo e incosciente che accompagna ogni prima volta. Si perde, poco a poco, ogni volta che si attraversa qualcosa di nuovo o si comprende qualcosa di più — perché crescere significa anche lasciar andare una parte di quello stupore iniziale.
Ma cosa è successo in questi trent’anni? Parecchie cose.
Nel frattempo, ci sono state le battaglie femministe, MeToo, il ripensamento del desiderio e del potere. Abbiamo imparato a riconoscere ciò che allora sembrava naturale e ora non lo è più. Eppure, Io ballo da sola resta. Resta eccome perché racconta un momento irripetibile per una ragazza che si fa archetipo femminile del viaggio iniziatico (altra faccia del più maschile viaggio dell’eroe) tramite lo sguardo intenso e infinitamente struggente di uno degli artisti contemporanei più coraggiosi e dolci e indagatori delle relazioni umane che è stato Bernardo Bertolucci. Che in qualche modo ci costringe ora a rivederci come eravamo, e a domandarci cosa siamo diventate.
Trent’anni dopo l’uscita di Io ballo da sola, è naturale guardare quel film con occhi diversi. Il tempo è cambiato, e con esso lo sguardo collettivo sul corpo, sul desiderio, sulla rappresentazione dell’adolescenza femminile. Alcuni aspetti che negli anni ’90 ci sembravano poetici, liberi, addirittura rivoluzionari — come la sensualità di Lucy, la sua iniziazione attraverso il corpo e il desiderio, la nudità come espressione — oggi ci interrogano da altre prospettive: quelle del consenso, del potere, dell’asimmetria tra autore e soggetto. La regia di Bertolucci è stata letta da alcuni come espressione di un potere maschile travestito da lirismo, e la sua figura posta al centro di un dibattito necessario sul rapporto tra arte, etica e rappresentazione. Ma è proprio in questa tensione che sta il valore del film e del nostro rapporto con esso: Io ballo da sola è figlio del suo tempo, e per questo va guardato oggi non con giudizio sommario, ma con strumenti critici capaci di tenere insieme sensibilità diverse. Ciò che comunque sorprende, ancora oggi, è la capacità di un autore adulto, uomo, lontano per età e condizione dall’adolescenza, di raccontare con tale precisione e delicatezza un passaggio che riguardava profondamente noi giovani degli anni ’90, molto più vicini di lui a quelle emozioni, a quella soglia tra innocenza e consapevolezza. È giusto interrogarlo oggi, ma è anche giusto riconoscere quanto un film così ci abbia parlato e continui a farlo. Non tutto può e deve essere riadattato retroattivamente: alcune opere vanno comprese nel loro tempo, e custodite come testimoni di una sensibilità, di un’estetica, di un pensiero che ha segnato una generazione. Rivederle oggi, con domande nuove, è anche questo un atto d’amore.
E quindi cosa può dire oggi questo film alle ragazze che hanno vent’anni nel 2025? Forse che la libertà è un miraggio che si insegue ballando, a volte da sole, a volte insieme. Che crescere è anche attraversare gli sguardi degli altri, ma poi imparare a restituire il proprio. E che i sogni, anche quelli sbagliati, anche quelli imposti, lasciano tracce reali.
Che spesso quello che crediamo fondamentale, come conoscere l’identità del nostro vero padre o identificare correttamente la persona giusta con cui fare l’amore la prima volta, si rivela trascurabile al limite dell’insignificante, ma che ciò che conta veramente è passare attraverso, vivere i passaggi, fare le esperienze umane e compiere il proprio destino.
Con le debite distanze e proporzioni, mi sembra naturale oggi riconoscere in Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) di Luca Guadagnino un’esperienza contemporanea affine a quella di Io ballo da sola. Non solo per l’ambientazione e il tono, ma anche per la capacità di raccontare quel misto di paura e desiderio che accompagna la scoperta dell’altro — altro come corpo, come identità, come differenza sessuale, come universo intellettuale con cui collidere, confrontarsi, creare anche per definire la propria identità. E, in entrambi i casi, riuscendoci.
Che oggi, a trent’anni da Io ballo da sola, all’inizio del nuovo millennio, l’indagine più urgente e significativa sia quella sull’identità queer — sulle possibilità di raccontare, comprendere, vivere e rappresentare un’attrazione e un rapporto omosessuale o non conformista — è indubbio. Ma ogni epoca ha le sue urgenze, e soprattutto i propri modi per mettere in scena e narrare i temi universali, come quello dell’iniziazione. Guadagnino, che sta anche realizzando un documentario sulla vita e le opere di Bernardo Bertolucci, non ha mai nascosto di avere un debito artistico nei confronti del regista scomparso ormai da quasi un decennio. Non mi stupirebbe se, nella realizzazione di questo suo film, fosse tornato col pensiero proprio a Io ballo da sola.
L’invito a questa giornata mi ha dato l’opportunità di fare un’esperienza immersiva nella biografia profonda del film, ma anche nella dimensione emotiva e affettiva che ancora oggi lega chi vi prese parte. Ho percepito chiaramente quanto forte fosse il legame tra i partecipanti di allora e quanto ancora oggi Io ballo da sola venga raccontato non solo come un’opera cinematografica, ma come un frammento di vita vissuta. Mi ha colpito inoltre l’affetto con cui tutti i presenti, ognuno a suo modo, abbiano ricordato Bernardo Bertolucci come un artista e un uomo capace di dare molto anche nella sfera privata.
È stato un assaggio, una restituzione malinconica e potentissima di una stagione: quella della fine del millennio, della maturità di un artista e del suo gruppo novecentesco. A tutti loro, e in fondo anche a tutti noi, manca quel sentire e quel vivere predigitale, fatto di presenze fisiche, di scambi lenti, di uno stare insieme più umano e meno filtrato.
Ma forse oggi abbiamo guadagnato altro: nuove consapevolezze, linguaggi più inclusivi, sguardi capaci di cogliere sfumature diverse. E proprio nel dialogo tra ciò che è stato e ciò che siamo oggi, nella possibilità di tornare a guardare con occhi nuovi qualcosa che ci ha formati, sta la ricchezza del presente.
Mi congedo da questa parentesi senese fatta di vivi e di morti aprendo la prima pagina delle poesie di Stephen Spender padre di Mattew e nonno di Saskia e Cosima; un libro Guanda del 1969 gelosamente custodito da mia madre nella sua libreria dei poeti amati. La prima cosa che leggo è la dedica iniziale e non mi sembra una coincidenza ci sia scritto: “a LEONE TRAVERSO vivo finché vivrà poesia nel cuore degli amici”.
Una lunga tradizione di sodalizi e di fiducia nell’amicizia.