ARTICOLO n. 83 / 2025
DI MAGMA E DI SABBIA
Note su una fase pre-rivoluzionaria
Ho imparato a riconoscere il momento in cui una soglia viene superata. Non arriva con fanfare, annunci, frecce luminose a indicare la via. Assomiglia piuttosto a quando realizzi che una relazione è finita settimane – o mesi o addirittura anni – prima che si riesca a dirlo ad alta voce. Lo status quo era già insostenibile, solo che continuavamo a comportarci come se non lo fosse.
La manifestazione del 3 ottobre ha reso evidente qualcosa che già sapevamo. Milioni di persone stavano elaborando la stessa rabbia, spesso in silenzio, spesso da sole davanti a uno schermo, con la sensazione di essere le uniche a vedere, le uniche a non riuscire a voltare lo sguardo. Il digitale viene accusato di essere il luogo della performatività vuota, del gesto che non costa niente. Ma a un certo punto, quelle stesse persone che discutevano nei commenti, che si passavano analisi e testimonianze, sono scese in piazza. E quando lo hanno fatto, portavano con sé mesi di elaborazione collettiva, un linguaggio comune già costruito, connessioni già stabilite.
Gli schermi hanno reso impossibile ignorare. Hanno mostrato ciò che i media tradizionali preferivano non rendere visibile. E poi i corpi hanno occupato le strade, perché alla fine è lì che si misura la possibilità concreta di interrompere il normale funzionamento delle cose. È nei corpi che si esperisce la vulnerabilità condivisa, la potenza del numero.
Il tuo governo fornisce armi a chi compie una pulizia etnica, l’opposizione parlamentare tace o balbetta frasi di circostanza. Esiste una soglia oltre la quale ciò che è umano in noi esige di prendere posizione, dove restare dentro il gioco significa perdere qualcosa di essenziale. Il gioco è truccato, lo sappiamo, le regole scritte per garantire che nulla di sostanziale possa davvero cambiare.
Due milioni di persone hanno bloccato l’Italia per tre giorni. Le arterie del Paese – autostrade, stazioni, piazze centrali – si sono intasate di una presenza che rifiutava di scorrere via, inceppando il metabolismo della produzione e del consumo.
Per tre giorni, milioni di persone hanno trasformato il loro corpo in ostacolo, in frizione. Siamo diventati sabbia negli ingranaggi. Abbiamo scelto di muoverci dove il sistema aveva bisogno che stessimo fermi e di fermare ciò che doveva scorrere: il traffico, la produzione, il ritmo quotidiano dell’economia.
Le città moderne sono progettate per questo. Il capitale deve circolare, le merci devono muoversi, chi lavora deve raggiungere le aziende. Se milioni di corpi occupano gli spazi progettati per il transito rifiutando di transitare, tre giorni bastano perché l’illusione della normalità cominci a sfaldarsi. Diventa chiaro quanto l’ordine esistente dipenda dalla nostra cooperazione quotidiana. Quanto sia sottile il velo che separa il funzionamento dalla paralisi.
Le istituzioni, dalle loro poltrone, guardano tutto questo con disprezzo e paura insieme. Continuano a pensare che la politica vera si faccia altrove, nei palazzi, attraverso mediazioni che noi non possiamo controllare. Ma al contempo sentono qualcosa sfuggire, la loro capacità di contenere il dissenso dentro i canali previsti scivola un po’ più lontano. Fuori da quei palazzi sta emergendo qualcosa di diverso, una soggettività politica che si muove senza le strutture consolidate della militanza tradizionale, senza i leader riconosciuti che dovrebbero incarnarla. Chi studia e occupa istituti e università. Chi lavora e si organizza al di fuori dei sindacati ufficiali. Attivisti e attiviste che tessono reti transnazionali. Persone che hanno smesso di credere che il loro ruolo si esaurisca nel depositare una scheda ogni cinque anni, che hanno capito che la democrazia o è qualcosa di più o è solo il nome che diamo alla nostra passività organizzata.
La complicità con un genocidio ha funzionato da catalizzatore, rendendo impossibile continuare a separare ciò che accade lontano da noi da ciò che struttura la nostra vita quotidiana. La Palestina è diventata specchio. Un baratro molto più buio in cui riconoscere i meccanismi di oppressione che attraversano ogni livello della nostra esistenza, che ci riguardano direttamente anche quando preferiremmo pensare che va tutto bene, che è tutto ok, anche quando ci diciamo che non ci possiamo lamentare.
Il genocidio a Gaza e lo sfruttamento del lavoro precario, l’occupazione militare e la violenza delle frontiere, l’apartheid e la segregazione urbana delle nostre città, il controllo sui corpi delle donne e la violenza di genere che permea l’organizzazione sociale: tutto questo condivide la stessa logica, quella che riduce gli esseri umani a mezzi da gestire, forza lavoro da sfruttare, numeri elettorali da conquistare, vite da amministrare come variabili di bilancio. Sono manifestazioni diverse di un unico magma di dominio che si espande, si infiltra, assume la forma del contenitore che lo accoglie, si adatta a ogni contesto senza mai perdere la sua natura.
Il femminismo ha insegnato da tempo che il personale è politico e che la violenza che si consuma nelle case e quella che si esercita fuori condividono la stessa grammatica del controllo. L’oppressione domestica e quella statale, il dominio sul corpo individuale e quello sul corpo sociale legati da un filo rosso: forme diverse attraverso cui il potere si perpetua, si naturalizza, diventa così radicato da apparire come l’unico ordine possibile, così familiare da sembrare inevitabile.
Quando un popolo cerca di sottrarsi al controllo, può essere represso. Eliminato nel silenzio che segue la violenza. La sua cancellazione viene coperta da una coltre di giustificazioni che si stratifica nel discorso pubblico. Discorsi sulla complessità della situazione. Sulla necessità di essere realisti. Su quanto sia ingenuo credere che le cose possano cambiare davvero. Sul diverso da noi. Alibi che si moltiplicano fino a rendere tollerabile ciò che dovrebbe tenerci svegli la notte. E questa desensibilizzazione funziona in ogni struttura di dominio perché opera in modo progressivo: trasforma l’orrore in statistica, lo rende normale attraverso la ripetizione, inevitabile attraverso la rassegnazione. È il linguaggio con cui il potere si assolve dalle proprie responsabilità, il meccanismo retorico attraverso cui la violenza si nasconde in piena vista, così radicata nel funzionamento quotidiano delle cose da non meritare più nemmeno un commento, un sussulto, una reazione.
Questa stratificazione di alibi, oggi, ha crepe nuove. Sente la pressione di corpi che rifiutano di essere riassorbiti, di voci che rifiutano di essere silenziate, di una rabbia che non accetta più di essere gestita attraverso i canali della politica istituzionale. Milioni di persone hanno capito che la storia si scrive nei conflitti reali, nelle strade dove i corpi si espongono e rivendicano uno spazio di esistenza a cui sono state costrette ad abdicare, nel proprio essere ingranaggi funzionanti.
Chi scende in piazza ritrova ciò che la vita atomizzata del tardo capitalismo ha sistematicamente distrutto: la possibilità di essere parte di qualcosa che eccede i confini del sé individuale. La scoperta che la solidarietà è una pratica concreta, un modo di stare al mondo. Che insieme si può avere più forza, più lucidità, più coraggio. La sociologia dei movimenti sociali lo ha dimostrato ripetutamente: le trasformazioni profonde nascono quando una minoranza sufficientemente determinata smette di accettare e comincia a immaginare – e soprattutto a praticare – alternative concrete. La differenza tra aspettare che il mondo cambi e prendere parte attiva al suo cambiamento, anche senza garanzie di successo, anche sapendo che il percorso sarà lungo, difficile, senza gioia istantanea. Eppure, quella gioia, abbiamo ricominciato a provarla.
Ma la domanda che ci poniamo ora è forse la più difficile: cosa ne facciamo, della rivoluzione?
Non nel senso romantico del termine, non l’immagine che ci hanno venduto – quella del momento insurrezionale, dell’assalto al palazzo, del prima e del dopo nettamente separati. Quella fantasia ci ha paralizzati per decenni, ci ha fatto credere che o si cambia tutto in un colpo solo o tanto vale non muoversi. La rivoluzione come evento spettacolare che risolve, che conclude, che inaugura l’era nuova. Una favola comoda per chi preferisce aspettare piuttosto che sporcarsi le mani con la complessità del presente.
Quello che stiamo imparando è diverso: la rivoluzione come processo, come proliferazione di fratture nel tessuto dell’esistente. Non sarà un progetto unico da realizzare ma una molteplicità di pratiche che erodono, sabotano, reinventano. Occupare spazi e sottrarli alla logica del profitto. Organizzare forme di mutualismo che rendano meno ricattabile chi lavora. Costruire reti di cura che non passino per le istituzioni. Bloccare, ancora e ancora, quando necessario.
Il rischio, d’altra parte, ci parla: senza una forma definita, questa energia può disperdersi, frantumarsi in mille rivoli che non comunicano tra loro, essere riassorbita dal sistema che ha già imparato a metabolizzare il dissenso. Ma il rischio opposto è ancora più letale: cristallizzare in strutture che riproducono le gerarchie che vogliamo abbattere, irrigidirsi in un’avanguardia che pretende di sapere meglio degli altri quale sia la strada giusta, tradire nella forma organizzativa proprio ciò che si vorrebbe affermare nei contenuti.
Teniamo aperta questa tensione. Costruiamo connessioni senza centralizzare il potere. Diamoci strumenti di coordinamento senza soffocare l’autonomia. Manteniamo la capacità di agire insieme senza pretendere l’unanimità su tutto. Forse è l’unica rivoluzione possibile in un’epoca che ha visto tutte le certezze del Novecento crollare una dopo l’altra – non per tornare alla rassegnazione, ma per inventare qualcosa che quelle certezze non potevano nemmeno immaginare.
Non so dove tutto questo porterà, e forse è proprio questa incertezza a rendere tutto più vero, più necessario. La storia non segue traiettorie prevedibili, non si lascia ridurre a profezie o a leggi che garantiscano il successo. Il potere ha ancora molte risorse per contenere, reprimere, cooptare quello che cerca di sfuggirgli. Eppure, qualcosa è cambiato in modo irreversibile. Più generazioni insieme hanno fatto esperienza diretta del fatto che un altro mondo non è solo desiderabile ma indispensabile, che le istituzioni attuali non hanno alcuna intenzione di costruirlo e anzi faranno di tutto per impedire che emerga. Questa consapevolezza libera e terrorizza insieme, toglie il peso della speranza mal riposta e permette di guardare le cose per quello che sono, senza il filtro delle illusioni che ci hanno tenuti fermi per così tanto tempo. Ma apre anche un orizzonte di incertezza radicale, dove bisogna inventare tutto da capo senza sapere se quello che si sta costruendo reggerà o crollerà sotto il peso delle proprie contraddizioni, senza alcuna promessa che lo sforzo non sarà vano.
Mentre scrivo, la Global Sumud Flottilla viene intercettata nel Mediterraneo e ottobre continua a espandersi, riverbera negli echi di settembre, prende la rincorsa, qui e altrove. Amsterdam, Parigi, Madrid e poi Dublino, Jakarta, Melbourne, Bruxelles, Lione, Rabat.
La tregua – parola che ha in sé la pausa, non la fine – arriva fragile, sospesa. Ritorniamo all’oscena riappropriazione narrativa, con il Governo che si affretta a spiegare che gli equilibri politici non si lasciano scalfire dal popolo, che niente di tutto questo importa, in un disperato e maldestro tentativo di negazione che rivela più di quanto voglia (o possa) ammettere.
Eppure, forse siamo già diversi. Ci siamo scoperti conoscenza incarnata, conoscenza impossibile da cancellare con un comunicato stampa o un discorso ben congeniato da un palco. La frizione non scompare perché qualcuno dichiara che la macchina ha ripreso a funzionare.
Chi attraversa la soglia lo fa senza necessariamente guardare indietro e io voglio pensare a una nuova architettura del possibile, dove si immagina, si gioisce, e ci si fa vicini, dove lo status quo ha perso la sua apparenza di inevitabilità.
Fino a un certo punto, diceva qualcuno.
Quel punto è qui, è ora ed è ovunque.