ARTICOLO n. 105 / 2025
ATLANTE DEI MIEI ESAURIMENTI
Siamo in otto a tavola la sera di Capodanno e qualcuno ha appena fatto la domanda. “Allora, come andiamo?” Non importa chi l’ha fatta. È una di quelle domande che esistono nell’aria prima ancora di essere pronunciate, domande che non sono domande ma rituali, incantesimi per tenere lontano il silenzio che se arrivasse davvero rivelerebbe che non abbiamo niente da dirci, che siamo qui solo perché è Capodanno e a Capodanno si sta insieme anche se essere insieme significa solo essere soli nello stesso posto.
Quando arriva il mio turno dico “sono stanca-a“. Allungo appena l’ultima vocale. Non so perché.
Sara sorride. “Eh, siamo tutti stanchi-i.”
Siamo tutti stanchi come se fosse normale come se fosse il tempo come se fosse colpa del periodo quando in realtà siamo stanchi da anni da sempre da quando non riesco più a ricordare, siamo stanchi di una stanchezza che non ha inizio e non ha fine e che è diventata l’aria che respiriamo.
Mentre lo dice, Sara si sta già alzando per prendere altro vino anche se nessuno gliel’ha chiesto, anche se i bicchieri sono ancora pieni, anche se non c’è bisogno ma lei deve muoversi, deve fare qualcosa, deve riempire il tempo con gesti perché se si ferma anche solo un istante forse capisce qualcosa che è meglio non capire.
Stanca non è nemmeno la parola.
Sono esausta. Catatonica. Annichilita. Sono in pezzi, piccoli, e non so più da quando, non ricordo più com’è essere intera, essere una, essere qualcosa che non sia questa frantumazione permanente. E questa forse è l’unica cosa onesta che mi rimane, questa incapacità di tenere insieme, di far finta, di dire “bene tu?” quando dentro sono un paesaggio devastato, sono ciottoli e rovine, dove tira sempre vento.
Marcel sta versando il vino e le sue mani tremano leggermente. Non l’avevo mai notato prima. O forse sì, forse l’ho sempre visto e ho fatto finta di non vederlo perché vedere significa dover riconoscere e riconoscere significa dover fare qualcosa e io non ho la forza di fare niente, non ho la forza nemmeno per me, figurarsi per gli altri.
Poco fa ha raccontato del bonus di fine anno, della promozione che forse arriva in primavera, e mentre lo raccontava aveva quella voce, sai, quella voce che hanno le persone quando stanno recitando una parte che ormai non gli appartiene più. “Non male, tutto sommato”.
Sommando. Tutto. Cos’è questo tutto, Marcel? Forse dentro questo tutto ci sta che sono sei mesi che non dormi. Che la mattina ti svegli e la prima cosa che pensi è devo farcela devo farcela devo farcela come un mantra, come una preghiera a un dio che non esiste. Che passi le domeniche a rispondere alle mail e tua moglie non ti parla più da mesi, non davvero, parlate di cose pratiche, di spesa e bollette, l’amore che è sprofondato nella logistica, scivolati nel tempo in cui non vi guardate più negli occhi perché dagli occhi forse capiresti, capiresti che siamo morti, che stiamo morendo, che continuiamo a fare finta di essere vivi ma siamo polvere.
“Bisogna correre se si vuol stare fermi, no?”
Lo dice quasi ghignando, la voce che si spezza leggermente, quel microscopico glitch che abbiamo fatto finta di non notare perché nessuno vuole ammettere che siamo tutti qui ad affogare educatamente.
Giuditta non mangia. Ha il piatto davanti da quaranta minuti: sposta il cibo, lo riorganizza, costruisce piccole montagne di formaggio ormai rappreso che poi distrugge, triste e gommoso come lei. Guardo le sue mani – quelle mani che conosco da anni, che ho visto fare mille cose – e torno dentro a una telefonata, era mezzanotte passata, il suo posso parlarti? rotto, in cui ho capito che mi stava chiamando dall’orlo di un precipizio.
Il bacio. Il collega. La festa della scuola. “È stato l’unico momento in cui mi sono sentita viva negli ultimi anni”.
E ora è qui seduta accanto a Marcel che trema leggermente mentre versa il vino, nei loro posti assegnati da coppiachefunziona, loro sono l’esempio, loro sono quelli che ce l’hanno fatta, e a nessuno sembra importare che sono due sagome mobili per inerzia – quella storia del piano inclinato che però è una salita, è un pendio scosceso, è una montagna che non si può più scalare. Questo direbbero: abbiamo investito troppo abbiamo costruito troppo abbiamo mentito troppo a lungo per poterci permettere la verità adesso.
Sara sta servendo gli antipasti, accanto al telefono con lo schermo rivolto in giù. Lo controlla ogni trenta secondi, ogni venti, ogni dieci, come se aspettasse un arcangelo, come se da quello schermo potesse arrivare qualcosa a salvarla quando sappiamo tutti – lo sappiamo – che non arriverà niente, che non c’è niente da aspettare, che continuiamo a controllare solo perché è meglio che guardare in faccia quello che abbiamo davanti.
L’ultima volta che ci siamo viste – ottobre? novembre? non ricordo più – mi ha detto “sto pensando di cambiare lavoro di nuovo” con la faccia e le spalle di chi stava ammettendo di aver provato ad ammazzarsi. Ricordo di averle detto “ma cosa vuoi fare, davvero?” e lei mi ha guardato come se le avessi chiesto di spiegare l’esistenza di Dio.
Trentanove anni. Monolocale in affitto. Scrollare LinkedIn alle due di notte pensando che forse, forse, il prossimo lavoro sarà quello giusto quando il problema non è il lavoro, il problema è che non c’è un lavoro giusto, non c’è niente di giusto, tutto è sbagliato, tutto è rotto, tutto è impossibile e continuiamo a cambiare azienda, cambiare città, cambiare vita pensando che il problema sia esterno quando il problema è che il mondo è diventato un posto dove non si vive, si dura, e durare è solo un altro modo per dire che funzioni ancora abbastanza e non puoi smettere.
Luciano sta raccontando di qualcosa che non afferro. Ha quella voce, quella voce allegra forzata che hanno le persone quando stanno per crollare. “Ma poi si risolve tutto, no? Si risolve sempre”.
Si risolve sempre.
Questa bugia che ci raccontiamo. La mia preferita, quella che finge di tenerci in piedi. Si risolve sempre quando in realtà non si risolve mai, si accumula solo, si stratifica, diventa una zolla tettonica di cose irrisolte che un giorno ci seppellirà ma fino a quel giorno continuiamo a dire si risolve sempre, andrà meglio, bisogna avere pazienza.
“Non posso lamentarmi però”.
Dovresti farlo, Luciano, anche se hai quarant’anni, lo studio avviato, l’appartamento in centro, e un sacco di soldi. Sulla carta hai tutto. Sulla carta sei un successo. Sulla carta dovresti essere felice. Ma la felicità non vive sulla carta e lo sai.
Mentre lo guardo – i suoi occhi di vetro – penso a quante persone conosco che guadagnano bene e si sentono vuote, che hanno fatto tutto giusto e si svegliano alle tre del mattino con quella domanda che è un abisso: è questo, tutto?
È questo tutto.
È questo tutto.
È questo tutto.
La domanda si ripete, si moltiplica, diventa l’unica domanda che resta quando hai tolto tutte le illusioni, quando hai smesso di credere alle bugie che ti raccontavi. Non sai rispondere. Non vuoi.
Davide sta portando via i piatti. È sparito in cucina. Non parla da mezz’ora, forse di più. Forse dall’inizio. È il più giovane di noi ed è già invisibile, già fuori dal gioco. Perché il gioco si gioca con i soldi e lui non ne ha, il gioco si gioca con la stabilità e lui non ne ha, il gioco si gioca con il futuro e lui non ne ha.
Condivide l’appartamento con un tizio e due tizie. Il tizio russa anche in bagno, dice. Lo dice con una risata che è un pianto, una risata che dice aiutatemi per favore qualcuno mi aiuti non ce la faccio più ma nessuno ascolta, siamo tutti troppo occupati ad annegare nei nostri inferni personali per tirare fuori qualcun altro.
I suoi genitori gli chiedono quando trova un lavoro vero. Come se servire ai tavoli fino all’una di notte non fosse un lavoro vero. Come se tornare a casa con l’odore del ristorante addosso e quella stanchezza che è osso, che è midollo, non fosse un lavoro vero.
Quello che vorrebbe rispondere è che non c’è, il lavoro vero. Che l’hanno venduto, che l’hanno abolito, che adesso ci sono solo lavori di merda e disoccupazione e lui ha scelto il lavoro di merda perché almeno mangia, almeno paga l’affitto, almeno esiste anche se esistere è questo oceano infinito di agonia.
“L’anno prossimo devo assolutamente organizzarmi meglio”.
Chiara. Sempre Chiara con l’organizzazione. Sempre Chiara che pensa che il problema sia l’organizzazione quando il problema è che non c’è organizzazione possibile per una vita impossibile, non c’è pianificazione che tenga quando tutto è al collasso, non c’è modo di gestire l’ingestibile.
“Quest’anno è stato un disastro”.
Lo dice ogni anno. Lo diciamo tutti ogni anno. Ogni anno è un disastro e ogni anno diciamo l’anno prossimo sarà diverso e ogni anno è uguale, sempre uguale, sempre questo lento sprofondare, questo niente travestito da vita normale.
“Dài, brindiamo”.
Alziamo i bicchieri. E io guardo questi volti – Marcel che trema, Sara che si muove, Giuditta che non mangia, Davide che è sparito, Elena che parla dei figli con quella disperazione paludata da gioia (i bambini crescono in fretta, dice, e io sento: il tempo passa e io resto qui, immobile), Luciano che sorride ed è una maschera di disperazione, Chiara che dice sì sì l’anno prossimo – e penso che tutto questo – il lavoro, la casa, la famiglia, i progetti, la speranza, il futuro – tutto questo è una bugia, una recita, un teatro dell’assurdo dove annaspiamo, dove fingiamo di avere speranza mentre ci disgreghiamo.
Cosa succederebbe se uno di noi crollasse?
Se Sara lasciasse cadere gli antipasti e gridasse non ce la faccio più, non ce la faccio, ho cambiato tre lavori e il problema non era il lavoro, il problema è che non voglio lavorare, non voglio fare niente, voglio solo sparire, voglio solo smettere, voglio solo che finisca?
Se Giuditta dicesse ho baciato un altro perché Marcel è sparito, io sono sparita, ci siamo seppelliti a vicenda da anni ma continuiamo a condividere l’appartamento come estranei cortesi, e io non so più chi sono, non so più cosa voglio, so solo che non voglio questo ma non so cos’è questo che non voglio perché è tutto, è la mia intera vita?
Se Luciano dicesse guadagno bene e vorrei morire, ho quarant’anni e mi sento finito, ho costruito questa esistenza pezzo per pezzo e ora mi guardo intorno e penso cosa ho fatto, cosa ho fatto, cosa cazzo ho fatto?
Se Davide dicesse ho trentotto anni e sono già esaurito, finito, fuori, e la cosa più terribile non è che sia finita ma che forse non è mai iniziata, forse nel grande conto di dio non sono mai stato nemmeno una possibilità e sono arrabbiato, sono incazzato e questa rabbia mi divora le budella anche se non emetto un suono che sia uno?
Se Elena dicesse i bambini crescono e io invecchio, i bambini crescono e io mi muro dentro al mio stesso corpo, i bambini crescono e io mi chiedo chi sono, cosa sono, se sono ancora qualcosa oltre a una madre, se sono mai stata qualcosa, se diventerò mai qualcosa o se questo è tutto, se la mia vita è già finita a quarantadue anni?
Se io dicessi non sono stanca, sono disperata, sono al limite, sono sul bordo di una voragine e la voragine mi chiama e la cosa più terribile è che a volte voglio rispondere, a volte voglio lasciarmi andare, a volte penso che sarebbe più facile e forse sarebbe l’unica cosa vera, non mediata, a rimanermi?
Saremmo pesanti. Negativi. Quelli che rovinano l’atmosfera.
E quindi brindiamo. Sorridiamo. Diciamo “quest’anno sarà diverso” mentre sappiamo – lo sappiamo tutti, è l’unica cosa che sappiamo con certezza – che non sarà diverso, che sarà uguale, che statisticamente sarà forse peggio.
Marcel versa ancora e le sue mani tremano sempre di più.
Sara non ha mai smesso di muoversi.
Giuditta non mangia, il suo piatto è una radura.
Davide è in cucina e forse piange, forse respira, quei respiri lunghi che fai quando tenti di trovare la forza per tornare.
E io penso, mentre faccio quella faccia che si fa – penso che forse il problema è proprio questo. Che continuiamo. Che non crolliamo.
I miei esaurimenti, i nostri esaurimenti.
I panorami interiori di Marcel che trema, di Sara che si muove, di Giuditta che non mangia, di Davide che sparisce, di Elena che parla dei figli come se fossero l’unica cosa che la tiene ancorata a una vita che non vuole più vivere, di Luciano che sorride mentre muore, di Chiara che dice l’anno prossimo mentre sa che non c’è un anno prossimo, questo eterno presente che ci consuma.
I nostri esaurimenti sono pianure su cui corriamo senza arrivare mai. Sono deserti dove tutto è urgente e niente sa mettere radici, valli dove il lavoro si accumula invisibile fino a seppellirci. Sono cime, dove dobbiamo avere sempre tutto chiaro quando in realtà non capiamo più niente e sono frontiere, frontiere, luoghi in cui quando sei troppo stanca per continuare a mentire, lì, finalmente vedi.
Se ci sedessimo in mezzo a questi territori saccheggiati, se li guardassimo in faccia, se dicessimo sì, sono esausta sono disperata sono al limite, vedremmo le cose per quello che sono e cioè insostenibili.
La lucidità di capire che non è colpa nostra se non ce la facciamo a tenere il ritmo, a essere sempre produttive, a sorridere sempre, a sperare sempre. La lucidità di ammettere che abbiamo sbagliato tutto, o di riconoscere che il mondo è diventato inabitabile e noi continuiamo a cercare di abitarlo adattandoci, ottimizzandoci, consumandoci, quando forse l’unica cosa onesta da fare sarebbe dire: no.
Non ce la faccio.
Non ce la facciamo.
Non si può.
Non lo so.
Quello che so è che sono ancora qui, seduta a questo tavolo. Che ho il bicchiere in mano. Che tra poco qualcuno dirà che è mezzanotte e ci abbracceremo e ci augureremo buon anno, un’altra soglia da attraversare come se contasse davvero qualcosa.
Domani mi sveglierò e sarà gennaio, il solito gennaio che pretenderà slancio e io non avrò slancio, avrò solo questo: la mia stanchezza mappata, riconosciuta, nominata.
I miei esaurimenti, i nostri esaurimenti.
L’unica geografia che ci rimane. Provare a orientarsi da qui.