ARTICOLO n. 2 / 2022

MANGIARE LA REALTÀ

La trasmissione televisiva di cucina oscilla tra il reportage e la divulgazione popolare. L’inviato è uno scrittore-giornalista. La televisione, alla fine degli anni Cinquanta, si preoccupa di educare i telespettatori al cibo genuino. 

Cibo genuino è un’invenzione televisiva che non significa nulla, una locuzione per formare i prossimi borghesi e piccolo borghesi.

Milioni di italiani non comprendono cosa significhi cibo genuino: mangiano la verdura del proprio orto, mangiano le uova delle loro galline, mangiano le loro galline. Questo è il cibo. Il cibo è il rispetto e il terrore per la fame patita fino a una dozzina d’anni prima. La fame patita a causa del fascismo non esiste nella trasmissione televisiva di cucina, la fame patita a causa del fascismo non è mai esistita, e se è esistita, è associata alla guerra, non al fascismo: il cibo televisivo serve a dimenticare. Il rispetto per il cibo esige da un lato l’occultamento della miseria causata dal fascismo, dall’altro lo svelamento non soltanto delle ricette, ma anche di ciò che compone i piatti. La trota non è già pronta e servita, la trota si agita mentre il pescatore le toglie l’amo dalla bocca.

L’inverno è la stagione della riproduzione che, al massimo, si prolunga all’inizio della primavera. Le uova si trasformano in avannotti. Gli avannotti sono piccoli pesci, conservano qualcosa delle larve che sono stati ma presentano qualcosa dei pesci che saranno: sembrano quei quattordicenni che non vogliono tagliarsi la peluria spuntata sul labbro, considerata come qualcosa di estraneo con cui convivere. Gli avannotti finiscono dentro i laghetti artificiali, le sponde in cemento, e lì crescono, prima di morire giovani. 

Lo svago di una domenica italiana. La domenica, gli operai e gli impiegati pagano una quota d’ingresso per accedere alle vasche di cemento; il proprietario fornisce la canna da pesca in bambù, gli operai e gli impiegati divenuti pescatori domenicali devono soltanto contare quante trote catturate in un’ora: tre, quattro, cinque. Alcuni proprietari non chiedono nemmeno la quota d’ingresso, i pescatori domenicali pagano quanto riescono a estrarre dal laghetto. In teoria, le trote delle vasche di cemento sono meno buone delle trote di torrente, ammesso che le trote di torrente non siano intossicate dalla chimica.

Il primo supermercato italiano apre nel 1957, l’anno della trasmissione dello scrittore-giornalista. Lo scrittore-giornalista mostra la cartina dell’Italia e indica la zona mostrata durante la puntata. La cucina inizia ad abbinarsi al turismo, diventa, essa stessa, turismo: il metodo migliore per viaggiare è mangiare. 

Più ci allontaniamo da noi stessi, più la cucina assume una falsa connotazione popolare. 

Lo scrittore-giornalista mostra quanto gli agricoltori si stiano motorizzando. Agricoltore è la parola utilizzata al posto di contadino. Nessuno pensa che, un agricoltore, si possa definire, poco dopo, imprenditore agricolo. La motorizzazione è la nuova realtà, ma la compravendita del bestiame avviene ancora al mercato. 

La pesa. I corpi degli animali. I corpi degli uomini. I soldi. I soldi, in contanti. Al massimo, gli assegni, firmati con le calligrafie incerte, prima il cognome del nome, come insegnano i maestri elementari, prima e durante e subito dopo il fascismo. Lo scrittore-giornalista dice che la povera gente cucina la fonduta, ma la fonduta può cucinarla anche la contessa vestita con un sobrio abito nero e un’elegante collana di madreperla. L’odore è buono, il sapore è meglio. Lo scrittore-giornalista pensa che sia possibile mangiare bene a casa dei miliardari e della povera gente. La cucina è uguale per tutti. La cucina è democratica. La cucina non fa sentire i poveri povera gente

L’importanza di abbassare la testa in un piatto, di identificare lo sguardo con il cibo. Basta avere tempo per il brasato. Mettere una coscia di manzo in umido, nel barolo, e cuocere per abbrustolirlo in superficie, così da impedire al succo interno della carne di disperdersi nel proseguimento della cottura. Il segreto è tutto qui: il barolo, la vita trattenuta dall’animale morto, quando la carne morbida si rilassa aumentando di gusto. Vedete i maiali? Ecco, questi sono quelli che abbiamo visto prima; già ammazzati, sventrati, ridotti nella forma desiderata: prosciutto cotto o crudo, salame, salsicce, salamelle, lardo per mortadella, cubetti di lardo trattati con pepe, sale, aromi. E le rane? Davanti a tutti, la monda delle rane, tagliare la testa, le zampe, togliere la pelle. Oggi nessuna trasmissione mostrerebbe il taglio della testa, delle zampe, l’asportazione della pelle, la faccia soddisfatta di chi mangia ossa croccanti. Impressiona, certo. E tuttavia, pochi decenni dopo, schiacciamo le rane con le ruote delle auto, quando torniamo dal supermercato dopo aver acquistato gamberi argentini surgelati.

Più di quindici anni dopo, la cucina diventa spettacolo, c’è il pubblico in studio. La trasmissione è alle sette di sera. A casa, le madri, ai fornelli, cucinano non troppo concentrate, si voltano, una posa a tre quarti verso il televisore, senza smettere di girare il mestolo; le madri ripetono le parole del televisore girando il mestolo nella pentola; i padri guardano il programma seduti in cucina, rispondono alle domande dei conduttori chiedendo consiglio alle mogli; i figli giocherellano con le briciole nei piatti ancora vuoti, edificano architetture con la mollica del pane. 

Sembra di essere in televisione.

Due conduttori, un uomo e una donna: l’uomo, figlio di un industriale chimico, ex editore, curioso, colto, generoso nel tentativo di una pedagogia che vada al di là della divulgazione; la donna, figlia di un imprenditore, attrice di cinema, poi di teatro, impegnata soprattutto in ruoli nei quali la donna ha un’origine popolare; l’attrice, alla fine della carriera, recita nel ruolo di una casalinga investigatrice. 

In ogni puntata, i conduttori presentano due personaggi noti che cucinano il loro piatto preferito. Poi rivolgono domande al pubblico in studio. È l’epoca dei quiz, il cibo bisogna guadagnarselo rispondendo alle domande. Che cosa è bene usare, per preparare un buon brodo di carne? Acqua fredda o acqua calda? Quali sono le verdure adatte a un brodo vegetale? Si usa ancora moltissimo la parola pastasciutta. Quanta acqua occorre ogni cento grammi di pasta per preparare una buona pastasciutta? Quando mia moglie non prepara la pastasciutta a mezzogiorno sono demoralizzato. È un medico che parla. Cento grammi non ingrassano nessuno, perché dovrebbero ingrassare me? Qual è il criterio per capire se uno gnocco è buono? La semola? Il colorito? Salire sul tavolo della cucina e spiaccicarlo per terra? Qual è il riso migliore per le cotture al forno? Qual è il riso più adatto alle minestre? Il riso povero di amido è consigliato per l’insalata di riso? Qual è il metodo migliore per mantenere bianco il riso dell’insalata di riso? È un valore, per il riso, essere bianco, o lo è per noi che mangiamo il riso bianco? Noi italiani mangiamo quattro chili di riso all’anno, in media, perché soltanto in Lombardia se ne mangiano dodici. Dodici chili sembrano tanti, ma in Cina ne mangiano centocinquanta all’anno. Un quintale e mezzo di riso dentro un corpo. Moltiplichiamo per un miliardo di cinesi. Centocinquanta miliardi di chili di riso. 

In Lombardia occorre lavorare ancora molto per diventare cinesi. 

Questi, invece, sono due cuochi cinesi che vivono a Milano, guardate, due veri cinesi. Voi siete specialisti di riso. Non solo. Patate impastate con farina di gamberi. Si immergono nell’olio fritto. C’è anche la carne, dentro? Ah, questa è una specialità, ogni specialità ha il suo segreto. 

Come si stacca la crosta della polenta dal paiolo? Un coltello può servire a molte cose, ma non è detto che sia la soluzione migliore. Questo riso, invece, arriva dagli Stati Uniti. Si chiama wild rice. Non diciamo che è loglio, una graminacea detta zizzania, che cresce accanto ai cereali, altrimenti, come possiamo lanciare il prodotto in Italia? È una zizzania buona, non è la discordia, non è la zizzania della Bibbia, e poi zizzania è una parola che scomparirà, resterà soltanto nella Bibbia, che ormai non legge quasi nessuno. Persa la parola di Dio, ci rimane il prodotto riso selvaggio, wild rice, basta dire che arriva dagli Stati Uniti, mettere wild nel nome e sarà un successo. Questo invece è riso italiano, per gente che ha molto appetito, diciamo pure, fame. Quando abbiamo fame, una frittata è meglio di una scatoletta. S’intende, una scatoletta di carne. Qui sul tavolo abbiamo tre tacchini morti, non ancora spennati, una natura morta su un tavolo degli studi Rai di corso Sempione, a Milano, la morte in serie. Tralasciamo la decorazione e diventiamo pragmatici. Questo tacchino, secondo voi, è buono? E questo? E questo? Qui invece abbiamo due oche: una ha le zampe giallo pallido, l’altro giallo acceso. Qual è l’oca più buona? La freschezza dell’agnello si riconosce dal rognone. Scegliete un rene rosa pallido o rosso vivo? Comprereste un pesce con la testa nera?

Nell’Ottocento si scrivono manuali sull’arte di usare gli avanzi. Due secoli dopo, il segreto per non lasciare avanzi è preparare porzioni minime, porzioni da bambini. Il segreto per non lasciare avanzi a sé stessi è alimentare gli altri. Impariamo dalla conduttrice del nuovo millennio, la donna magra, contemporanea, che pare entrata in cucina dopo una giornata di lavoro passata in uno studio televisivo trasformato in cucina. Cucina asettica, nessuna natura morta e tantomeno monda delle rane. La donna non mangia mai ciò che prepara. Al massimo, un assaggio, un assaggino. Eppure qualcosa rimane, sempre. Una magia: l’avanzo di un assaggino nemmeno assaggiato. 

Coraggio, bambini. C’è tempo per crescere, ma non poi così tanto. 

Un vecchio, solo, scola la pasta, la versa nel piatto, si siede al tavolo, guarda il fumo salire dai cento grammi di pasta: ha un malore, si accascia, la fronte appoggiata accanto al piatto, il fumo sale ancora per qualche secondo. 

Non sapremo mai se la macchia sul tavolo sia vino o sangue.

ARTICOLO n. 31 / 2024